La citazione di Adorno è alquanto nota: “Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie”. Un monito, quello del filosofo tedesco, in parte ripensato, e comunque rimasto decisamente inascoltato, dal momento che – a partire soprattutto dagli anni ’60 del Novecento – la produzione poetica sulla Shoah diventerà piuttosto abbondante. Tanto da poter essere considerata, sotto certi aspetti, un filone tematico a sé stante. La poesia, al contrario, in questo caso diventa forse la custode più fedele di quella memoria che ci riporta emotivamente a tutte le barbarie della storia.
Lunga sarebbe, dunque, la lista dei poeti che hanno dedicato versi alle vittime dei campi di sterminio nazista. Focalizzandoci soltanto su alcuni testi esemplari di autori italiani, è il nome di Primo Levi che campeggia sopra tutti, naturalmente, in quanto superstite dell’Olocausto e autore di Se questo è un uomo, la sua opera più celebre – considerata un classico della letteratura mondiale – in cui lo scrittore racconta l’esperienza di un anno vissuto nel campo di concentramento di Auschwitz. I versi di Shemà, il testo con cui si apre il libro, popolarissimi, sono una delle testimonianze più dirette e più raccapriccianti del processo di disumanizzazione che l’esperienza del lager ha rappresentato per milioni di persone: “Considerate se questo è un uomo, / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no. / Considerate se questa è una donna, / Senza capelli e senza nome / Senza più forza di ricordare / Vuoti gli occhi e freddo il grembo / Come una rana d’inverno”.
Un’altra tappa obbligata della poesia sulla Shoah sono i versi di C’è un paio di scarpette rosse di Joyce Lussu, poeta e partigiana. Quasi una ballata che ruota attorno a un paio di scarpe rosse (non ancora divenute il simbolo della violenza di genere) numero ventiquattro, calzate da un bambino di tre anni e mezzo che ha trovato la morte in un campo di sterminio, a Buchenwald: un paio di scarpette rosse “quasi nuove / perché i piedi dei bambini morti / non consumano le suole”.
Più o meno coevi alla poesia di Lussu sono alcuni componimenti, improntati alla pietà per i deportati nei campi di concentramento, di Franco Fortini – poeta e intellettuale di origini ebraiche. Si leggano, in particolare, i versi strazianti della prima strofa di Coro di deportati: “Quando il ghiaccio striderà / Dentro le rive verdi e romperanno / Dai celesti d’aria amara / Nelle pozze delle carraie / Globi barbari di primavera // Noi saremo lontani”.
Allungando invece sommariamente lo sguardo alle generazioni più recenti di poeti – oltre i testi canonici, qualche volta impregnati di inesorabile retorica celebrativa, e altri autori di repertorio come Quasimodo e Sereni – troviamo tra gli altri Maria Luisa Spaziani che rende omaggio Alle vittime di Mauthausen in una poesia che ha la cadenza di una preghiera laica e Alessandro Fo che in Pro memoria descrive, quasi con il passo della nuda cronaca, una visita al lager di Dachau sulle tracce di un “male” il cui ricordo consegnato alla storia sembra ormai “annacquato, / disciplinato, / sottomodulato”.
La poesia, però, oltre a custodire memoria e testimonianza, dovrebbe fungere anche e soprattutto da modello di resistenza – a memoria futura – perché quegli orrori non abbiano più luogo a ripetersi, magari sotto altre forme e altri vessilli ideologici o culturali. Non sarà del tutto peregrino, quindi, alla fine di questo breve excursus, pensando all’attualità, concludere con i versi recenti di un autore nostrano, da sempre lontano dai clamori del mainstream, come Antonino Contiliano. Che in Siamesi di Gaza, nel sentire gemello siamese il popolo palestinese, preconizza nell’interrogativo finale lo scenario inquietante di un nuovo ‘giudizioso’ genocidio: “qui Gaza e non Gaza … c’è ancora il cielo / e un occhio di cielo per le terre cancellate…?”