Non è stato facile, a poche ore dalla notizia, trovare il giusto distacco e provare a compendiare in poche righe, estemporanee e disordinate, il sentimento di commozione per la morte di Franco Battiato – molto simile a quello che si accompagna alla scomparsa dolorosa e inaccettabile di un congiunto stretto con cui si è convissuto intimamente per una vita intera. Eppure la notizia non giunge per nulla inaspettata: per le indiscrezioni sulla sua malattia, l’improvviso ritiro dalle scene e il silenzio attorno alla sua figura, il nome di Battiato era già in qualche modo ‘postumo’, consegnato alla memoria personale e collettiva. Mentre la sua morte terrena (aggettivo sostanziale, per lui, che era un credente), in fondo, l’avevamo soltanto rimossa, forse per provare a elaborarne preventivamente il lutto perenne.
Con Battiato non se ne è andato soltanto un artista particolarmente amato, con tutto il suo vissuto emotivo di ricordi imprescindibili e di condivisioni, ma un modello, un paradigma, un romanzo di formazione, una visione della musica. Un’epoca storica. Esattamente nell’autunno di quaranta anni fa, infatti, usciva in tutti i negozi di dischi (perché ancora esistevano) La voce del padrone, sicuramente l’album che più di tutti avrebbe reso popolare il nome di Franco Battiato. Una specie di alieno che con la sua aria quasi da infiltrato ha segnato per sempre – come credo sia più o meno accaduto a molti della mia generazione – il mio approccio alla musica ‘pop’, oltre ad aver esteso irrimediabilmente la mia percezione e i miei confini di ascoltatore maniacale, facendomi esplorare mondi lontanissimi, territori fino a quel momento pressoché sconosciuti o inimmaginabili.
All’epoca era praticamente d’obbligo essere iscritti al glorioso partito dei cantautori italiani. Io, dopo quella rivelazione, finii per militare a lungo nell’area forse più oltranzista del partito, quella dei battiatomani organici, con uno slogan diventato proverbiale: più carisma e sintomatico mistero. In realtà, come tutti sanno, Battiato è stato un cantautore soltanto per approssimazione, perché nella sua lunga e variegata carriera non c’è genere o linguaggio musicale che non abbia frequentato anche solo per tradirlo o per sabotarlo: dalle canzonette preistoriche e meravigliosamente inascoltabili, interpretate fin da allora con quella vocalità mediorientaleggiante che sarebbe diventata uno dei tratti inconfondibili della sua cifra timbrica, alla musica sperimentale e agli sconfinamenti verso la musica contemporanea, fino all’opera lirica e alle canzoni intelligenti degli anni successivi (per non dire dei suoi collaterali esperimenti pittorici e cinematografici). Inutile cercare una classificazione pacifica. All’insegna costante della ricerca e della contaminazione, e nel rifiuto dichiarato delle etichette, Battiato è stato davvero un unicum nella scena musicale italiana degli ultimi decenni.
A ciascuno il suo Battiato, dunque. Quello però a cui io mi sento più sentimentalmente legato, in modo consanguineo e indissolubile, è soprattutto il Battiato degli anni Ottanta. E così, fin dalle sue prime apparizioni televisive di quella stagione, ho cominciato a portare l’orologio sul polso destro per pura emulazione. Perché Battiato lo portava a destra. Ho vissuto la scoperta di essere miope quasi con il privilegio dell’eletto, perché a volte Battiato portava gli occhiali. Il naso aquilino era un motivo di vanto, e non per le ascendenze dantesche, ma perché fisiognomicamente mi riconduceva a Battiato.
Non c’è momento essenziale o quotidiano in cui la musica di Battiato non sia stata la colonna sonora tipica della mia adolescenza. I miei diari del liceo e i temi scolastici sono puntellati di citazioni che provengono soprattutto dai testi battiateschi di quegli anni: un universo arcano e spesso dissacrante di lingue stranierissime per cui canticchiare un ritornello in arabo a un certo punto divenne la cosa più allegramente normale del mondo. Il mio immaginario cominciò a poco a poco a popolarsi di non meglio identificati studenti di Damasco vestiti tutti uguali e di gesuiti euclidei vestiti come dei bonzi. Di geometrie esistenziali e di meccaniche celesti. Sulle frequenze di Radio Varsavia l’ultimo appello era sempre quello da dimenticare. Un viaggio attraverso fraseggi sonori inconsueti verso mete esotiche, prima di allora mai scoperte, ma in cui Tozeur era raggiungibile e familiare come una fermata del treno per Palermo. E quando si trattava di parlare, aspettavamo sempre con piacere.
Forse ho conosciuto il plurilinguismo, l’arte della citazione e la tecnica del cut-up proprio attraverso quelle canzoni prima ancora che dalla lettura dei poeti d’avanguardia. Tommaso Labranca, che alla musica di Battiato dava del tu, definisce tecnicamente “cialtronici” alcuni testi di quel periodo. Col senno di poi, quei capolavori di nonsense erano forse dei piccoli monumenti all’autofiction su cui abbiamo modellato molti dei nostri sogni giovanili.
Erano anni in cui potevamo ancora concederci innocentemente un po’ di leggerezza e di stupidità, perché erano succursali dell’intelligenza. Ho studiato chimica e letteratura italiana ascoltando come un loop le canzoni di Battiato. Da fermo o in macchina, in cuffia o a volume sparato dallo stereo verticale, in solitudine o in compagnia, ho percorso migliaia di chilometri riascoltando fino allo sfinimento felice le canzoni di Battiato. Mi sono addormentato parecchie volte col registratore analogico sotto il cuscino, segretamente cullato da una canzone di Battiato. Molti anni prima che accadesse nella scena di un film di Guadagnino, nel chiuso della mia stanzetta, ho imparato a masturbarmi col sottofondo radiofonico di una canzone di Battiato.
Negli anni ho contato almeno quattro occasioni pubbliche in cui ho conosciuto personalmente il Maestro (che non amava, come tutti i veri maestri, questo attributo), ogni volta parlandogli e sfiorandolo con quella mistura incontenibile di deferenza e di devozione innamorata e fanciullesca con cui ci si rivolge ai propri miti pop quando si manifestano in carne e ossa.
Ora, dopo la morte di Battiato, mi aggiro un po’ come un vecchio orfano nostalgico tra i cimeli – vinili, cd, foto, video, poster, autografi, ritagli di giornali – che nel tempo ho collezionato con la passione febbrile e filologica del fan di lungo corso. Non c’è rimasto più nessuno ad aspettare con me che ritorni l’Era del cinghiale bianco.
Francesco Vinci