La procura di Caltanissetta non crede alle rivelazioni dell’ex collaboratore di giustizia Maurizio Avola, che nel corso della trasmissione ‘Mafia – La ricerca della verità”, andata in onda ieri sera su La7, ha rivelato di avere partecipato alla fase esecutiva della strage di via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui morirono il magistrato Paolo Borsellino e gli agenti di scorta.
In una nota a firma del procuratore aggiunto facente funzioni Gabriele Paci, la procura nissena ricorda di avere raccolto la circostanza raccontata da Avola nel corso di un interrogatorio dello scorso anno, tuttavia “i conseguenti accertamenti – si legge – non hanno allo stato trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità”. Secondo Paci, inoltre, dalle indagini delegate alla Dia “sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità” del racconto di Avola.
Molto duro anche il commento del presidente della Commissione Regionale Antimafia, Claudio Fava: “Maurizio Avola, un signore con ottanta omicidi sulla coscienza, ha tirato in causa i morti e i vivi per raccontare le sue ridicole verità. E qualcuno gli ha perfino creduto. Avola afferma di aver ammazzato Giuseppe Fava. Dice di aver caricato di esplosivo l’autobomba di via D’Amelio. Sostiene di essere l’ultimo ad aver visto vivo il giudice Borsellino e di aver dato lui il segnale per far saltare in aria l’auto. Dice di sè, e degli altri compari, un mucchio di strampalate e supponenti falsità che hanno avuto l’onore della cronaca televisiva ieri sera su La7 e la consacrazione letteraria sul libro che gli ha dedicato un giornalista esperto, ma stavolta assai superficiale, come Michele Santoro”. Prosegue, poi, Claudio Fava affermando: “Avola dice che c’era sempre lui, ovunque si dipanasse la storia oscura e vigliacca di Cosa nostra. A Catania come a Palermo. Lo racconta con ventisette anni di ritardo dall’inizio della sua collaborazione con lo Stato. Lo fa mescolando suggestioni grossolane e presunte inoppugnabili verità. Una per tutte: dietro la morte di Paolo Borsellino c’è solo la mafia, nient’altro che la mafia. Complicità istituzionali? Nessuna! Servizi segreti? Paranoie! Depistaggi? Letteratura giornalistica”.
Il giudizio di Fava è, quindi, netto: “Avola mente. Grossolanamente. Un rapido e onesto lavoro di verifica giornalistica avrebbe permesso di rendersene conto prima di dedicargli un libro che già nel titolo, “Nient’altro che la verità”, appare come uno sputo in faccia ad ogni verità. È agli atti dei processi celebrati a Caltanissetta che Avola, nei giorni della strage di via D’Amelio, stava a Catania con un braccio ingessato – prosegue il presidente dell’Antimafia dell’Ars -. Verificarlo era semplice. È scritto nella sentenza del Borsellino Quater che le auto della scorta di Borsellino arrivarono in via D’Amelio a sirene spente mentre Avola racconta che lui era lì, come Achille fieramente in attesa del suo Ettore, e li sentì arrivare ‘a sirene spiegate’. È nelle carte del processo ‘Orsa Maggiore’ la ricostruzione dell’omicidio di Giuseppe Fava, e poco o nulla del racconto di Avola corrisponde a verità (una per tutte: ‘la redazione dei Siciliani stava al primo piano‘: falso, lavoravamo in uno scantinato sotto il livello della strada)”. Fava conclude il suo post con queste parole: “La domanda però è un’altra, chi manda Avola ad avvelenare i pozzi? Chi si vuole servire della sua sgangherata ricostruzione per fabbricare un altro depistaggio su via D’Amelio? Chi continua ad aver paura, trent’anni dopo, di chiunque s’avvicini alla verità su quegli anni e su quei fatti? E chi li difende questi nostri morti, così strapazzati da mani villane?”.