Lo storico esponente del PSI locale è stato sentito sul suo ruolo all’interno della Cea, impresa coinvolta nel cantiere del porto di Castellammare del Golfo, sequestrato dalle fiamme gialle nel 2010, e in merito al sistema di potere della Banca Don Rizzo di Alcamo.
Davanti al collegio presieduto dal giudice, il dottore Enzo Agate, e a latere la dottoressa Chiara Badalucco e la dottoressa Roberta Nodari, lunedì mattina, presso il tribunale di Trapani, è iniziato l’esame di Pasquale Perricone.
L’ex vicesindaco ed assessore all’Urbanistica di Alcamo, è l’imputato principale dell’inchiesta “Affari sporchi” del 2016 condotta dalla Procura trapanese. Insieme a Maria Lucia Perricone, Marianna Cottone ed Emanuele Asta è accusato di vari reati, tra cui: associazione a delinquere, bancarotta fraudolenta, truffa ai danni dello Stato e della Ue, corruzione. L’interrogatorio del sostituto procuratore, la dottoressa Rossana Penna, si è innanzitutto concentrato sul ruolo dello storico esponente del PSI alcamese all’interno della Cea, società coinvolta nel cantiere del porto di Castellammare del Golfo e sequestrato dalle fiamme gialle di Trapani e di Alcamo nel 2010.
L’ex vicesindaco ha spiegato di aver cominciato nel 1985 ad occuparsi dell’impresa fondata a fine anni sessanta dal padre. In principio, Pasquale Perricone ha svolto attività di collaborazione con la Cea, e in aspettativa dalla Bnl presso cui era impiegato. Successivamente, venne assunto dalla società con la qualifica di direttore generale e per circa 9 anni si è occupato di lavori pubblici. Dal ’70 al ’90 la carica di presidente dell’impresa è stata assunta dal padre, poi, da Rosario Maniscalchi e successivamente da Pasquale Perricone fino al ’96. Tuttavia, come ha rilevato il pubblico ministero, i redditi del Perricone percepiti da Cea risultano attribuiti fino al ’99. Il politico alcamese ha spiegato che è ciò probabile perché in quegli anni doveva ancora percepire dei pagamenti arretrati dalla società. In seguito, la carica di presidente della Cea è stata assunta da Rosario Agnello (considerato testa di legno del Perricone dalla Procura), invece, quella di vice presidente da Domenico Parisi. Entrambi sono stati coinvolti nell’inchiesta, e in procedimenti giudiziari paralleli, concernenti sempre i lavori di ampliamento del porto di Castellammare del Golfo e, nello specifico, il fallimento della Nettuno, società costituita come unico centro di imputazione dei costi.
Fino al 2001, l’ex vicesindaco ha raccontato di essersi occupato, per la Cea, di attività di coordinamento generale, comprese le relazioni esterne, le gare, i rapporti con le stazioni appaltanti. Sotto la sua egida, inoltre, sono stati condotti dall’impresa appalti importanti in tutta la provincia di Trapani, ma non solo. Ad Alcamo, in particolare, l’impresa si è aggiudicata negli anni ’90 i lavori dell’acquedotto di Alcamo e di Contrada Furchi. Sui motivi delle sue dimissioni dalla carica, chiesti dall’accusa, Pasquale Perricone ne ha indicati tre: il primo concerne il mutato sistema delle aggiudicazioni. Tutti i cantieri aggiudicati dalla Cea, ha precisato l’ex vicesindaco, sono stati affidati ai soci in attività. Tra tecnici e capi cantieri sono nate delle complicazioni. Questa situazione avrebbe comportato nel tempo dei danni. Quindi, una gestione non unitaria dell’impresa non avrebbe portato dei ricavi, soprattutto a causa dei ribassi nelle gare d’appalto fino al 40%,. Ciò avrebbe reso l’attività poco remunerativa. Il secondo motivo, indicato dal politico, riguarda le attenzioni del mondo mafioso verso le persone più esposte. Su questo punto, Perricone ha dichiarato che produrrà altri documenti relativi a minacce subite che sarebbero continuate nel periodo successivo alla sua presidenza della società.
A questo punto il pubblico ministero ha chiesto all’ex vicesindaco se fosse a conoscenza delle diverse affermazioni dell’ex capomafia di Alcamo, Giuseppe Ferro, dal ‘97 collaboratore di giustizia, il quale è stato sentito anche nell’ambito di questo processo. Nello specifico, nell’ordinanza del GIP si legge che il Ferro aveva indicato il nipote di suo cognato, Pasquale Perricone per l’appunto, come “Imprenditore vicino alla famiglia mafiosa di Alcamo, coinvolto nella illecita aggiudicazione delle gare di appalto indette dagli enti pubblici territorialmente competenti e diretto beneficiario di tale sistema concordato di illecita assegnazione alle ditte colluse”. Inoltre, nell’interrogatorio al quale si fa riferimento nell’ordinanza, l’ex capomafia dichiarava “Vennero investiti in tale impresa parte dei 465 milioni versati nel ‘91 nella cassa della famiglia alcamese da un gruppo di imprese che facevano rispettivamente capo a Perricone Pasquale, Emmolo Ernesto, Cassarà Giuseppe e Spinella Tonino, imprese che si erano aggiudicate l’appalto per la costruzione dell’acquedotto nella zona di Alcamo. Ricordo che tale somma mi fu ratealmente consegnata in contanti direttamente dal Perricone ed io la feci pervenire subito al Milazzo (Vincenzo, capomafia dell’epoca ndr). Le imprese aggiudicatrici di pubblici appalti di una certa rilevanza vinti in Alcamo versavano alla famiglia mafiosa alcamese una percentuale fissa del 2 rispetto al prezzo loro corrisposto dall’ente pubblico. Ricordo che già il Milazzo Vincenzo aveva palesato l’intenzione di elevare la percentuale al 3, tasso che effettivamente egli applicò all’impresa aggiudicatrice dell’appalto per i lavori di costruzione dell’acquedotto. Il discorso venne successivamente ripreso alla fine del ’94 poco tempo prima del mio arresto avvenuto alla fine del gennaio ’95. Infatti il Messina Denaro Matteo disse nel corso di una riunione tenutasi se non erro a Partinico che da quel momento in poi in tutta la provincia si sarebbe dovuto applicare alle imprese aggiudicatarie la percentuale del 3”. Il Perricone ha dichiarato di essere a conoscenza delle propalazioni di Ferro.
Nel corso dell’esame, tra l’altro, l’ex vicesindaco ha detto più volte di avere studiato le carte dell’inchiesta. Infine, il terzo motivo citato da Perricone, che lo avrebbe spinto a lasciare la sua carica di presidente della Cea, è costituito dall’intenzione di non “consumarsi l’esistenza”. Dal 2000, infatti, il politico alcamese ha iniziato un’attività di commercio estero costituendo la società Imex, l’unica, secondo l’accusa, nella quale figura il Perricone rispetto alla galassia di società che sarebbero state occultamente da lui gestite dai locali di via Goldoni, sede della Cea. Fino al ’96, ha spiegato l’ex vicesindaco, l’immobile costituito da un piano terra e un primo piano, con accesso da due lati distinti e da un collegamento di una scala interna, era interamente occupato dalla Cea. Dopo il ridimensionamento dell’impresa, dai lavoratori è stato sfruttato solo il piano terra. Nel ’96 è stato costituito un consorzio, Promosud, dagli imprenditori Emmolo e dalla Cea. Tali imprese si ritroveranno anche nel cantiere del porto di Castellammare del Golfo. Nel 2002 è stata fondata invece da Perricone la AlcaExport, poi diventata nel 2005 Promosud cooperativa, società omonima che si occupa di formazione professionale, alla quale nel 2008 le viene affittato il primo piano dei locali in via Goldoni. Detto anno coinciderebbe con l’inizio dei lavori del porto di Castellammare del Golfo, di cui Perricone non sarebbe estraneo per la magistratura, essendo anche l’artefice nel 2004 dell’associazione tra la Cea e il Consorzio Veneto, capogruppo dell’Ati (associazione temporanea di imprese) che si è aggiudicata l’appalto dei lavori del porto di Castellammare del Golfo. La presenza di Perricone attorno a tutte le società è stata ammessa dallo stesso, precisando, però, di essere un punto di riferimento per gli amministratori e non un gestore occulto, visto che dal 2012 le cooperative come Work in Progres, Paidos, Ambiente e Servizi, a lui riconducibili per la magistratura, erano totalmente ferme. Invece, il suo coinvolgimento nelle vicende del porto di Castellammare, sarebbe riconducibile ai suoi buoni rapporti con le cooperative del nord, risalenti alla sua militanza nella Lega delle cooperative sin dagli anni ’70. Dunque, secondo quanto dichiarato ieri da Perricone, non avrebbe partecipato alla riunione del 2010 dei rappresentanti di Cea con l’amministratore di Coveco, Franco Morbiolo, al contrario di quanto sostenuto durante un esame dal teste Leonardo Impastato (ex cognato dell’imprenditore Emmolo della Cogem e facente parte dell’Ati). Perricone ha detto di avere raggiunto dopo detto incontro il presidente del Coveco, con il quale aveva mantenuto nel tempo buone relazioni, perché invitato dagli amministratori della Cea. Il pubblico ministero Rossana Penna ha poi chiesto all’ex vicesindaco il motivo per cui nel corso di un’intercettazione, una volta raggiunto dall’avviso di garanzia, Perricone pensò di essere indagato per il reato di bancarotta fraudolenta. L’ex vicesindaco ha dichiarato che non c’era altra possibilità, dato che si era interessato alla situazione della Cea. Una volta intervenuto il sequestro del cantiere, infatti, l’impresa è stata estromessa dal Coveco. Incalzato dal pm, l’ex vicesindaco ha dichiarato che l’estate prima aveva ricevuto delle notizie frammentarie su un’indagine a suo carico concernente il fallimento di una cooperativa del porto. Alla domanda del pubblico ministero, da chi fosse stato informato dell’indagine, il politico alcamese ha risposto “Dall’ex senatore Papania”.
Va ricordato che, dinanzi al GIP di Caltanissetta, vi è l’accusa nei confronti dell’ex parlamentare dei Dem, oggi fondatore del Movimento Via, di accesso abusivo al sistema informatico di indagine, rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio. È coinvolto nell’indagine anche un sottoufficiale dei carabinieri che era in servizio ad Alcamo. Dopo, si è trattato il tema del sistema di controllo del principale centro economico della città: la banca Don Rizzo. Sempre nell’ordinanza del Gip si legge che l’esame delle conversazioni intercettate dimostrerebbe che Perricone, Antonino Papania e Liborio Ciacio, collaboratore del primo, “Sono in grado di influire sulle nomine degli organi sociali e sulle strategie aziendali della Banca nell’ottica di garantirsi il pieno controllo delle politiche e dell’operato di tale banca”. Nel 2014, dunque, vi sarebbe stato in corso un contrasto sotterraneo tra l’ex senatore Papania e Perricone a causa del tentativo di quest’ultimo di acquisire sempre maggior potere all’interno dell’istituto di credito, contrasto poi sanato nel 2015. In una conversazione telefonica intercorsa nel 2014 tra Perricone, il membro del consiglio di amministrazione della Banca Cooperativa Don Rizzo, Vito Asta, ed il dottore Vincenzo Nuzzo, quest’ultimo ringraziava l’ex esponente del PSI per l’appoggio alla sua nomina di presidente della Banca. ASTA: Aspetta che nell’occasione c’è qui il dottore Nuzzo qua davanti che ti vuole dire due parole va bene? PERRICONE: Va bene. ASTA: Te lo passo. PERRICONE: Sì ciao. Dott. NUZZO: Pronto buongiorno. PERRICONE. Salve, salve dottore Nuzzo come va? Dott NUZZO: Io niente ne approfitto perché volevo ringraziarla per questo suo interessamento e dire grazie sempre molto limitativo. PERRICONE: Facciamo, facciamo quello che possiamo. Dott NUZZO: No la ringrazio moltissimo di tutto. PERRICONE: No. Dott. NUZZO: E nella speranza che in questa banca possa cambiare qualcosa nel prossimo triennio. PERRICONE: Va bene in bocca al lupo a tutti. Dott. NUZZO: Grazie crepi il lupo e ancora grazie per la sua grande disponibilità. PERRICONE: D’accordo… inc. Dott. NUZZO: Buona giornata arrivederci. PERRICONE: Arrivederci. Perricone è stato socio per 30 anni della banca. L’ex vice sindaco ha dichiarato che, come in ogni organismo, c’era un sistema di potere. E che Carmelo Guido, l’ex direttore, era un uomo di Papania. Non c’era nessun progetto economico, ma si voleva solo riequilibrare i rapporti all’interno del cda della Banca. Altro tema è stato quello relativo ad alcuni atti del liquidatore della Cea, rinvenuti dopo le perquisizioni nel pc di Pasquale Perricone all’interno del suo ufficio in via Goldoni n.6. In particolare, l’attenzione si è posta su degli atti riservati tra il commissario liquidatore e l’assessorato regionale competente. Lo storico esponente del Psi alcamese ha spiegato di non sapere nulla in merito, anzi, dopo avere ricevuto l’avviso di garanzia, avrebbe rimproverato la cugina Mary Perricone, la quale, intrattenendo un rapporto di collaborazione con il dottore Russo, era solita utilizzare diversi pc dell’ufficio summenzionato. Dopo avere fatto una proposta transattiva mediante la Imex, Perricone ha raccontato di avere acquistato le certificazioni Soa, indispensabili per partecipare alle gare d’appalto di lavori pubblici, da un’altra società. L’ex vicesindaco ha annunciato che documenterà che non era per nulla interessato ai grandi lavori, ma l’obiettivo era quello di ottenere lavori per piccoli importi mediante il consorzio Coimp. Quest’ultimo aveva come amministratore unico Mary Perricone, la quale, secondo l’accusa, sarebbe prestanome del cugino per l’accreditamento presso le grandi cooperative del nord Italia e per il procacciamento di gare d’appalto.
L’interrogatorio di Pasquale Perricone continuerà dopo la pausa estiva. La prossima udienza è stata fissata per il 9 settembre.