Scrive Diego Maggio sulla quarantena, con un pensiero ai figli, diventati adulti altrove

redazione

Scrive Diego Maggio sulla quarantena, con un pensiero ai figli, diventati adulti altrove

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sabato 25 Aprile 2020 - 17:37

Carissimi figli miei, a futura memoria (sempre che… la memoria abbia un futuro, direbbe Sciascia) vi dedico queste righe, sapendole pervase dai sentimenti inusitati che anche per me caratterizzano questi giorni di un’epidemia ormai globale. E io comincio ad avvertire qualche brivido in più per voi, impossibilitati a muovervi dai Paesi lontani in cui avete scelto di vivere. Ora che siete diventati adulti altrove, penso che avvertiate più forte, in questi giorni, il richiamo verso questa terra che vi ha visti nascere: e dalla quale vi abbiamo (purtroppo per noi) insegnato a… prendere le distanze.

Cala la sera sul porto deserto, sono quasi le sette e mezzo. Fra non molto, vostra madre preparerà una cena diversa dalle altre, come mi fanno indovinare i rumori discreti che provengono dalla cucina. Siamo rimasti a tenerci compagnia, io e lei. Oggi come ieri, i ritmi del nostro vivere si appiattiscono su una remissività che ha sempre più il sapore di una resa all’evidenza. La rinuncia al rasoio e alla camicia, la scansione di caffettiere e spuntini, lo sguardo assorto sul tremolio ondoso di quel mare dietro le tende, il silenzio che proviene dalla strada… Tutto sa di inesplorato e ineffabile. Piatto e inconsueto. Nel vissuto di quanti siamo confinati a casa da settimane, subentra una stanchezza mentale che fa il paio con la inesorabile ripetitività degli spostamenti casalinghi fra divani, materassi, sedie e tavoli, libri e quotidiani, tv e computer. Era febbraio, ed è già fine aprile. E ne avremo ancora fino al prossimo decreto, fino all’ultimo contagio. Meno di due mesi sono passati dall’epoca in cui ci facevano impunemente digerire che per salvare i bilanci pubblici bisognava tagliare reparti ospedalieri e i fondi per gli enti di ricerca, di cultura e di manutenzione del paese. E quanti di noi non tacciavano la “protezione civile” come se fosse un passatempo per disoccupati e volontari, oppure un pretesto per calamitare gli atei che non volevano destinare l’otto per mille alla Chiesa Cattolica? Alla ennesima giornata di segregazione comincio a dubitare che valga a qualcosa farne una narrazione. Persino questo linguaggio così buonista mi appare non più corrispondente alla ormai sopravvenuta insostenibilità del mix fra torpore e tumulti che ha preso il sopravvento sul mio stato d’animo. Vediamo oscillare i nostri bioritmi fra la consolazione dello stare sopravvivendo e lo sgretolamento delle certezze finora connesse all’habitat che ci siamo cuciti addosso. Andiamo tutti ri-scoprendo, in questi giorni, che la solitudine non appartiene alla vocazione umana. E che la vita è fatta di relazioni. Lo stesso introdotto neologismo “distanziamento sociale” ha tutto il sapore di un ossimoro: insomma una contraddizione in termini. E che questa astinenza forzata dai contatti reali viene solo parzialmente surrogata da corrispondenze virtuali che tanto sanno di adattivo, innaturale. Non può una videochiamata sostituire una carezza. E le emozioni non si trasmettono neanche fra i balconi. Non con la stessa immediatezza.

Comincio dunque a rievocare mentalmente tutto ciò che, fino a gennaio, costituiva la mia, la nostra regolarità. E mi sovviene la valenza che ancora non abbiamo rinunciato ad attribuire alla quantità del possedere: nel frigorifero, nell’armadio, nel conto bancario, nei centimetri cubici dell’automobile, nei soprammobili. A cosa serviranno tutte queste cose, dopo l’epidemia? In quale dimensione vivremo questo agognato “dopo”? Non più di quella “normalità” sentiremo nostalgia quando – dopo la pandemia – avremo visto che il caporalato nei campi, la furbizia degli evasori totali, le truffe dei falsi invalidi, la tracotanza di chi continua a costruire case destinate a rimanere sfitte, i cibi avariati dei ristoratori disonesti, gli inquinamenti degli industriali senza scrupoli, la viscidità dei corruttori e dei corrotti per un appalto, hanno danneggiato noi stessi, le nostre famiglie e le città che diciamo di amare. Faremo tesoro di questa esperienza per respingere quei “capi-elettori” che (specialmente quaggiù) tenteranno ancora di barattare il nostro consenso con la promessa di un favore o di mortificare la dignità di un disoccupato elargendogli un buono di benzina o una busta con la spesa?

Ma mentre cerco di alimentare il seguito di questo casalingo “diario di bordo”, i bollettini del tardo pomeriggio hanno una crudeltà che disarma qualunque ottimismo di avanguardia. Cerco amici nelle varie parti d’Italia per conoscerne le condizioni di salute. Rispolvero vecchie rubriche telefoniche e “navigo” in Internet per trovare compagni del corso Allievi Ufficiali. Riesco a rintracciare Marco che, a Montecchio, ha perso Maria per un tumore, poco più di un anno fa: “è surreale – mi dice – assomiglia a quella guerra di cui ci parlavano i nostri padri”. Un mio collega bergamasco, sentito poco fa al telefono, mi ha raccontato che da casa sua passano decine di ambulanze ogni momento. Quaggiù da noi, il tasso di letalità si mantiene basso. E, più che altro, si annoverano casi grotteschi di gente che elude le proibizioni come si trattasse di furbizia. E sui social fioccano i post, talora terrorizzanti, tal’altra paradossalmente umoristici. Nei messaggi delle chat di gruppo, si alternano intanto sermoni e idiozie, aforismi e non-sense, ricette e incoraggiamenti, preghiere e infantilismi, frasi fatte e pistolotti meditativi di circostanza. E intanto scorrono notti inquiete e giorni intorpiditi da un quid incognito, da una graduale assuefazione a questo regime di clausura non certo optata, da un depotenziamento progressivo delle energie di riserva. La frase più ricorrente suona perfino enfatica: “Quando tutto sarà finito, niente sarà più come prima”. Non riesco davvero ad immaginarla questa data di scadenza, né mi è dato di prefigurare quali e quante cose accadranno fino al “day after”: quello in funzione del quale stiamo conformando le nostre giornate claustrofobiche e stiamo dirigendo le nostre speranze.

So che le parole scorrono, mentre migliaia di vite si spengono. Il pensiero ha bisogno di trovare àncore nel sogno, per non naufragare nello smarrimento di questa pestilenza che non conosce misure né termini di arresto. E, dunque, immagino il vociare dei ragazzi davanti alle scuole riaperte e nei cortili dell’Oratorio che mi ha visto crescere. E il fumo uscire dai comignoli dei panifici con forno a legna. E i sagrati delle chiese, la domenica mattina, riassieparsi di abbracci a doppia guancia, come usiamo qua al Sud. E voi figli che, dopo mesi di lavoro straniero, tornate, per le feste, riassaporando le minestre di casa. E di scacciare l’incubo della “fame d’aria”, riscoprendo invece quell’altro appetito buono che mi assale ai soli antipasti di quella trattoria dentro le mura. E riunirci fra compagni del Liceo, come facevamo da quella Maturità gagliarda e lontana. E arrostire carciofi nella scampagnata con gli amici di una vita. E tornare a casa col vassoio di dolci, dalla passeggiata al corso. E immagino la partita allo stadio, la ola delle gradinate, le urla dopo il gol, le Olimpiadi in televisione, il mercatino del martedì, la verdura a centimetri zero, il programmare quel volo a prezzo abbordabile, i saluti nell’ascensore condominiale. Mi vedo tampasiare lungo la laguna, mentre il sole cala sulle saline che sempre affascinano anche chi è sbarcato da quel volo partito da Tampere. Vagheggio la fragranza delle panelle calde di quel chiosco a Porticella. E, ogni sabato, portare alla madre che non ho più quei gigli nati spontaneamente accanto all’arancio che lei amava e vicino all’araucaria che piantai quando voi nasceste, figli miei.

Il giorno di Pasqua, dalla finestra ho fotografato una coppia di gabbiani che avevano trovato requie in cima alla lanterna dirimpettaia a casa nostra. Sono, i gabbiani, uccelli di mare. Ma io li ho vissuti come colombe, in questa Festa della cristianità che non ha avuto, quest’anno, aggettivi sufficienti ad esprimere lo stato delle nostre anime. Si facevano compagnia coniugale, quei volatili sul lampione del porto: magari immaginando anch’essi – come tanti di noi – che la lontananza dai propri figli (la “vostra” lontananza) fosse tutta nelle mille miglia di quell’ultimo orizzonte. Guardavano intanto, da quella sommità, le barche immobili e le banchine disertate dagli umani. Ma, sfidando la retorica, vi dico che mi è sembrato volessero comunicare fiducia nella imminenza di un domani redento da solitudini forzose, da silenzi irreali, da scoramenti inediti. Coltivando – come tutti noi – il diritto alla speranza di poter riprendere a volare.

Diego Maggio

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