Non esiste lettura di un libro o visione di un film che possa raccontare l’orrore dei campi di concentramento meglio di quanto non faccia il Museo della Memoria di Auschwitz. Ne ho avuto piena consapevolezza qualche mese fa, quando assieme a un gruppo di amici per la prima volta ho varcato il cancello con la beffarda scritta “Arbeit Macht Frei” (“Il lavoro rende liberi”) per un vero e proprio viaggio tra le pagine più drammatiche della storia umana. La visita ad Auschwitz è un crescendo di tensione: si fa appena in tempo a raccogliere alcuni dati sul numero dei prigionieri deportati tra il 1940 e il 1945 (1.300.000, soprattutto ebrei, ma anche oppositori politici, rom, omosessuali e appartenenti a diverse etnie) e sulla loro provenienza (ungheresi, polacchi, greci, russi, norvegesi, francesi, olandesi, cechi, slovacchi, belgi, austriaci, jugoslavi e 7500 italiani), per poi capire che le emozioni più intense devono ancora arrivare. I primi veri pugni allo stomaco arrivano quando si entra nelle stanza in cui i curatori dell’allestimento hanno raccolto valigie, indumenti, giochi per bambini e, soprattutto, scarpe. Montagne di scarpe, sottratte a chi arrivava, inconsapevole di quello che avrebbe vissuto, e che veniva condannato a indossare soltanto una camicia di cotone e un paio di zoccoli. Un abbigliamento che i detenuti dovevano farsi bastare anche sotto la neve, mentre erano chiamati a effettuare quei lavori quotidiani che teoricamente avrebbero dovuto permettere loro di riacquistare la libertà. Per chi si fermava o cadeva, c’erano le solite punizioni esemplari. Per chi si ribellava, c’era la fucilazione immediata, sotto gli occhi di amici, parenti o compagni di camerata. Tutto ciò, naturalmente, prima che il passaggio alla “soluzione finale” non portasse al più economico utilizzo delle camere a gas. Attraversare i sentieri di Auschwitz o della vicina Birkenau è una vera e propria discesa negli inferi: si ha l’impressione di sentire i rumori e gli odori che per cinque anni furono i protagonisti assoluti di quei luoghi, con la sensazione di portarseli dietro per sempre. Ci si sente addosso quelle camicie di cotone e quegli zoccoli e viene quasi la tentazione di controllare braccia e gambe per vedere se nel frattempo sono comparsi lividi o ferite. Uno dei pannelli installati dai curatori dell’allestimento riporta una celebre frase del filosofo spagnolo Georges Santayana: “Chi dimentica il passato è condannato a riviverlo”. Una citazione che dovrebbe accompagnarci ogni giorno, nei casi in cui si continuano a perpetrare persecuzioni e violenze di ogni genere contro uomini, donne e bambini che oggi non sono più ebrei o europei, ma africani, asiatici, mediorientali o latinoamericani. Ma anche quando leggiamo dei “viaggi della speranza” e dei conseguenti naufragi che hanno trasformato il Mediteranneo in un autentico cimitero subacqueo. Ed è anche per questo che nei prossimi anni, riprendendo un’iniziativa lanciata durante l’amministrazione Carini, il Comune di Marsala dovrebbe tornare a portare i propri studenti al Museo della Memoria di Auschwitz. Un’esperienza che tutte le generazioni dovrebbero vivere, per capire davvero il senso di una storia che, a futura memoria, non si dovrà mai smettere di raccontare.
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