Ricorre in questi giorno il sedicesimo anniversario del rogo del Serraino Vulpitta, il Centro di Permanenza Temporanea trapanese in cui, nella notte tra il 28 e il 29 dicembre, si susseguirono una serie di eventi che portarono alla morte di sei immigrati, detenuti presso la struttura trapanese.
Dopo un tentativo di fuga sedato duramente dalle forze dell’ordine, oltre dieci immigrati vennero rinchiusi in una sola camerata ed uno di loro diede fuoco ai materassi in gommapiuma ed alle lenzuola di carta che costituivano l’arredo della cella. A causa dell’incendio, protrattosi per alcune decine di minuti, morirono tre immigrati tunisini mentre altri tre, gravemente ustionati, furono trasferiti in ospedale a Palermo, dove morirono dopo una lunga agonia nei mesi successivi.
Era il 1999 e l’opinione pubblica stava cominciando a conoscere gli effetti della legge Turco – Napolitano, che istituendo i Cpt portò un nuovo approccio nell’accoglienza dei flussi migratori che nel giro di qualche anno sarebbe stato oggetto di ulteriori inasprimenti con i governi di centrodestra, la nascita dei Cie e l’introduzione del reato di immigrazione clandestina.
Nell’approssimarsi di questa triste ricorrenza, il Coordinamento per la Pace di Trapani ha inviato una nota agli organi di stampa in cui fa il punto sulle politiche migratorie che hanno determinato nei giorni scorsi l’apertura di un nuovo hotspot presso il centro di Milo:
“Questo anno terrificante per la libertà e i diritti umani in tutto il mondo, si chiude a Trapani con la pessima notizia dell’istituzione dell’Hotspot di contrada Milo.
Il governo italiano, ubbidendo acriticamente – come sempre – alle direttive di Bruxelles, torna a scommettere su questo territorio per convertire l’ex CIE trapanese in un «Hotspot».
Evidentemente gli scandali, le inchieste, la condanna per reati sessuali al prete che teneva in mano le redini della cosiddetta accoglienza in questa provincia, non sono bastate a escludere Trapani da un nuovo, perverso meccanismo di segregazione istituzionale.
Il centro di Milo funzionerà come un enorme campo di smistamento in cui sarà deciso il destino di donne e uomini arbitrariamente divisi tra migranti economici e potenziali richiedenti asilo.
Le numerose testimonianze delle persone recluse nell’Hotspot di Lampedusa sono molto chiare: poliziotti italiani ed europei, funzionari di Frontex e dell’Europol fanno firmare un questionario, senza alcuna traduzione, ai migranti appena sbarcati per stabilire se sono migranti “economici” oppure migranti meritevoli di protezione umanitaria. In molti casi, il solo criterio utilizzato è il paese di provenienza.
Poi, come caldamente raccomandato dalla Commissione europea, si procede alla rilevazione – anche con la forza – delle impronte digitali.
I migranti considerati economici vanno espulsi. Se non è subito possibile, gli viene dato un pezzo di carta con l’intimazione a lasciare l’Italia entro 7 giorni. In pratica, vengono trasformati in clandestini: buttati in mezzo a una strada, ricattabili, senza diritti. Un ritorno al passato che ci riporta indietro di dieci anni, quando dai CIE italiani uscivano immigrati senza documenti, costretti alla clandestinità.
I migranti considerati, invece, dei rifugiati vengono identificati, trattenuti in attesa della “ricollocazione”, e introdotti nell’estenuante procedura per il riconoscimento del diritto d’asilo. Ma a causa del regolamento di Dublino, al profugo viene impedito di andare nel paese realmente desiderato, ed è per questo che molti di loro si rifiutano di fornire le impronte digitali nell’Hotspot di arrivo.
Considerando le guerre e il terrorismo che devastano il mondo (e che sono il frutto anche delle scellerate politiche dei paesi occidentali), questa differenza di status tra chi viene in Europa per lavorare e chi scappa dalle bombe o dall’Isis, è una distinzione odiosa e priva di alcun senso: tutti, infatti, rischiano la vita per crearsi un futuro, tutti cercano di scappare da instabilità e povertà, tutti meritano accoglienza e protezione.
Con l’istituzione degli Hotspot, invece, l’Unione europea sceglie ancora una volta la strada della repressione e della discriminazione: la libertà di movimento viene mortificata, le norme che tutelano l’universale diritto all’asilo e alla protezione umanitaria vengono calpestate, i destini di migliaia di persone vengono segnati dalla spietata burocrazia.
Al filo spinato e ai muri eretti contro i profughi dai governi fascisti e autoritari nell’Europa dell’Est, si aggiungono ora gli Hotspot voluti da quei campioni di democrazia che stanno a Bruxelles.
Ma i muri – la storia dei popoli lo insegna – non durano per sempre”.