Percorrere la lunga linea che separa la realtà dal sottomondo con una semplicità che spaventa ed inquieta. Due sentimenti percettibili quando si è immersi nella lettura de “La regola del tantalio” (Caissa Italia Editore) dello scrittore, drammaturgo nonché medico Claudio Forti. Un noir metropolitano atipico, in cui ad emergere è una sfera fortemente psicologica, dove il degrado morale è il sintomo di una pandemia che causa milioni e milioni di “morti per inconsapevolezza”. Il protagonista del romanzo è un alto dirigente di un’azienda che produce e commercia il tantalio, un metallo-simbolo, un reagente che non reagisce con nessuno degli altri metalli. Come Tantalo, come Norman Barclay, come un emarginato tra gli automi della società. Uno che nella vita gode del lusso di una frenetica New York e che non riesce a dormire la notte perché tormentato dai suoi ricordi. I ricordi. Quanti di noi si rigirano tra le lenzuola asfissiati dagli incubi? E gli incubi cosa sono se non il peso dei ricordi, della vita vissuta, la storia di ognuno di noi, bella o brutta che sia. Ci distingue. Ci caratterizza. Ma è al contempo una minaccia. Norman ha dei ricordi troppo pesanti da sopportare e vuole eliminarli. L’occasione arriva con le sembianze di una faccia grigia, di un John Smith qualunque, di una bella donna. Il binomio Norman/Nora, quasi un anagramma, sono le facce di una stessa morbosa quanto logica medaglia, un disegno tracciato da Forti che appare spaventoso perché molto più terreno di quanto si possa pensare. Nel suo romanzo l’autore viene fuori attraverso l’alter ego che non vorrebbe essere, ovvero il dottor Jeremy Kalwinsky, anche lui medico, un figurante che non vuole curare i mali ma cancellare i ricordi. Un concetto matrixiano viene ripreso con forza nella prima parte e non a caso visto che il romanzo sarebbe funzionale cinematograficamante. Ma c’è tutto un rimando anche alle entità dei voladores nella concezione degli sciamani toltechi. E poi quelle cornacchie come attenti osservatori, hanno mille occhi. Forti vuol far scorgere la drammatica patina di banalità che ricopre il potere, la polvere sull’identità perduta, quando Norman elimina sé stesso, quando non è più riconoscibile al mondo che lo circonda ed è costretto a vagare ai margini della società, per la strada, che ha una visione più “bassa” e più sconcertatamente vera. In senso lato. Come perdita di valori, di appartenenza, di storia. Perchè la consapevolezza è nemica dei potenti il cui intento è tenere in ginocchio un popolo stanco, che non ha la forza di ribellarsi. Rifiutare di entrare in un tunnel quando ci si è già dentro da un pezzo. Ma è proprio nel suo miglior epilogo che Forti vira il suo noir verso la strada del più sensato verismo.
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