C’è una linea sottile – ma imprescindibile – che separa il diritto alla difesa dalla violenza simbolica che può esercitarsi nelle aule di giustizia. Una linea che, nel caso del ricorso in appello per l’omicidio efferato di Giulia Tramontano, appare drammaticamente superata. Le parole pronunciate dall’avvocata Giulia Geradini, che difende Alessandro Impagnatiello, hanno sollevato indignazione e dolore: secondo la legale, il suo assistito “non ha commesso un delitto crudele”, perché “voleva solo uccidere il feto”. Sospendiamo per un momento la necessità di contestualizzare ogni frase e domandiamoci invece: quando un omicidio non è crudele? Quando un uomo, per mesi, elabora l’idea di avvelenare la propria compagna incinta di sette mesi? Quando la colpisce con 37 coltellate? Quando lascia il corpo senza vita in casa per ore e tenta persino di bruciarlo? Se tutto questo non è crudeltà, allora cos’è?
La riflessione, però, non può fermarsi alla sola valutazione morale. Riguarda anche il linguaggio e il potere che esso esercita nel contesto giuridico e culturale. Perché sì, la difesa è sacrosanta. Ogni imputato ha diritto a un processo equo, e gli avvocati hanno il dovere oltre che il diritto di usare tutti gli strumenti previsti dalla legge per ottenere il miglior esito per il proprio assistito. Ma la giustizia non è un’arena dove tutto è concesso. L’articolo 89 del Codice di Procedura Civile vieta l’uso di espressioni offensive o sconvenienti, anche per i difensori. E l’articolo 598 del Codice Penale, pur prevedendo un’esimente per le offese “inerenti all’oggetto della causa”, stabilisce chiaramente che queste non devono superare i limiti della necessità. La frase “voleva solo uccidere il feto” non solo travalica questi limiti, ma potrebbe essere una violenza verbale inflitta non solo alla memoria di Giulia, ma anche alla sua famiglia, al figlio che portava in grembo, e a ogni donna che teme di non essere più protetta neppure dalla parola. È un colpo inferto alla società civile, che osserva il processo come specchio del proprio sistema di valori.
D’altro canto, proprio l’impianto giuridico ci impone un’altra domanda: quanto può spingersi un avvocato nel tentativo di difendere l’indifendibile? È davvero solo una strategia, oppure una rinuncia alla responsabilità etica che ogni parola, dentro e fuori dall’aula, porta con sé? In questo contesto, la scelta delle parole è già una forma di giustizia o di ingiustizia. È tempo che anche le aule di tribunale si adeguino a un nuovo senso civico, che non significa censurare il diritto di difesa, ma riconoscere che l’umanità viene prima della retorica. Il linguaggio che giustifica, che minimizza, che ferisce nuovamente le vittime in nome della strategia, è lo stesso linguaggio che alimenta una cultura della disumanizzazione. Non basta più parlare di leggi: bisogna parlare di rispetto. Non possiamo più accettare che tutto sia lecito in nome del processo. Perché quando la parola uccide due volte, nessuna sentenza potrà mai risarcire davvero.