Può sorprendere, ma l’iconica bandiera della pace, quella composta da sette strisce orizzontali di colori vivaci, non risulterebbe particolarmente popolare per molti dei pensatori della storia antica, moderna e anche contemporanea. La guerra, e non la pace, ha infatti spesso ispirato le riflessioni filosofiche più profonde sulla natura dell’uomo e sull’idea di società. Non è un caso che sulla guerra, polemos, come la chiamavano i greci antichi “padre di tutte le cose, di tutte re” (Eraclito), è incentrato il poema in versi più famoso dell’antichità, l’Iliade, attribuito ad Omero. Un rapido sguardo diacronico a millenni di storia non lascia scampo, è solo questione di tempo: due popoli vicini, prima o poi, incroceranno le armi giurandosi l’un l’altro odio eterno.
Platone, uno dei padri fondatori della filosofia, l’equivalente di un Mosè per la religione cristiana, nel parlare della pace, la declassa a nient’altro che “un nome”, dal momento che “è la guerra che si impone per forza di natura”. Le stesse filosofie orientali, sorprendentemente, non sono scevre da una profonda consapevolezza dell’intrinseco valore della guerra, tanto da risultare addirittura un’Arte, grazie agli insegnamenti del generale filosofo Sun Tzu: “in guerra, dunque, fai sì che il tuo primo obiettivo sia la vittoria, non lunghe campagne”.
Ci vogliono i grandi pensatori cristiani per provare ad invertire la rotta. Per quanto, a ben vedere, anche loro, alle prese con il mondo buio e difficile delle invasioni barbariche, s’imbattono in inenarrabili difficoltà a professare la dottrina di Cristo del “porgi l’altra guancia”. Sant’Agostino, ad esempio, da uomo di fede devoto al Signore, crede sia ingiusta la guerra scatenata contro popoli inoffensivi, lasciando così automaticamente aperta la questione sulla “guerra giusta”. A chiarire il concetto, ci pensa, qualche secolo dopo, niente meno che San Tommaso d’Aquino che, con estrema lucidità, ci insegna a non disdegnare la “necessità della guerra giusta”, che poi è quella condotta per una “giusta causa”. Dottori della chiesa, nonché politici estremamente accorti e realisti.
Insomma, incredibile a dirsi, per trovare finalmente il primo pensatore apertamente contrario alla “disciplina della guerra” bisogna arrivare fin nel cuore dell’umanesimo, all’inizio del XVIesimo secolo. Il teologo Erasmo da Rottedam, ritiene per primo che la guerra sia “un osceno oltraggio alla ragione umana, un affare da bestie feroci“. Ma nonostante Erasmo e qualche altra sparuta debole voce, come quella dell’utopista Tommaso Moro, che si scaglia contro il “flagello delle guerre”, davvero poco possono fare i movimenti proto pacifisti di quel tempo, dal momento che la guerra può ormai contare su una lunghissima tradizione scritta, oltre che orale. Per non parlare della tradizione pratica, manuale, che si perde nella notte dei tempi.
A quel punto manca solo lo sdoganamento morale, ossia la piena legittimità della guerra. Niente paura. Ecco sbucare in perfetto spolvero il diabolico Niccolò Macchiavelli che, facendo chiarezza sull’argomento, mette per esteso una volta per tutte il concetto: “il Principe non deve avere altro pensiero che preparare la guerra, strumento supremo di governo”. L’equivalente di una bomba atomica, per quei tempi.
Dopo di lui, diventa difficile nascondersi dietro ad un dito. Hobbes constata che i rapporti di forza della società sono, in nuce, regolati da una vera e propria guerra di tutti contro tutti, sia visibile che sotterranea, e che “la guerra sia una condizione inevitabile del vivere”. Cannoneggiando a destra e a manca, si arriva così ai primi dell’Ottocento quando tocca al barone Von Klausewitz, l’inventore della polemologia, spiegarci che la guerra è tutt’altro che un fatto puramente militare, bensì soprattutto “la prosecuzione della politica con mezzi differenti”. Cos’altro aspettarsi, in effetti, da uno che scrive a caratteri cubitali, ad ogni capoverso: “prima fare la guerra, poi fare filosofia” (“deinde philosophari”)?
Dei filosofi tedeschi di fine Ottocento, specie quelli di matrice idealista, vissuti in un contesto storico-culturale particolarmente polarizzato verso un acceso nazionalismo, non stupiscono le decise prese di posizione a favore della guerra. Friedrich Hegel ci dice, ad esempio, che la guerra è “un antidoto rigenerante contro l’infiacchimento dei popoli, fenomeno umano che preserva da quella quiete durevole che indica stantia immobilità”. Sembra incredibile, riconoscere in queste parole il filosofo della Fenomenologia … ma tant’è. E poi, vabbè, Friedrich Nietzsche, che, meno sorprendentemente di Hegel, si arruola nell’esercito risultando così legato alla guerra da firmarsi in alcune sue lettere dal fronte agli amici con “il tuo amico Friedrich Nietzsche, cannoniere prussiano”.
Con padri “nobili” del genere, non ci si stupisce se negli anni Venti e Trenta del Novecento, accompagnati da nuovi teorici della guerra, come Karl Schmitt, Ernst Jünger, lo stesso Martin Heidegger (che non ritrattò mai di essere stato ideologo e convinto sostenitore del nazismo), il terzo reich potesse riuscire a spiccare il volo sprofondando il mondo in uno dei peggiori incubi della Storia. Così come, appena pochi anni prima, in Italia il futurismo, Gabriele D’Annunzio, Tommaso Marinetti, con le loro idee tossiche di “guerra sola igiene del mondo“, i loro “zang tumb tumb” avevano abbracciato con gioia la prima guerra mondiale, spianando la strada al ventennio fascista.
Davvero sorprendente quanta energia il fior fiore della filosofia abbia speso, pur con sfumature diverse, a favore o in nome della guerra. Ma possibile che, almeno in tempi moderni non si trovi un solo filosofo, disposto a spendersi per la pace? Ovviamente sì. Ci pensa Immanuel Kant, padre dell’Illuminismo, a pensare che la guerra vada rigettata sempre e comunque, nonostante l’imperfezione del mondo. È lui a fornire il contributo più alto di ogni tempo all’inedito progetto filosofico di un “pacifismo giuridico”. Per la pace perpetua, il suo piccolo capolavoro pacifista, è un testo coraggioso, concepito con precisione millimetrica, che cerca di raccomandare agli uomini la costruzione di una comunità basata su fatti e valori, in nome dei quali bisogna proclamare l’impossibilità della guerra, come un dovere intellettuale. Anche se non ci siano alternative ad essa. Come sempre, in ogni pagina, la bussola di Kant è la legge morale. Per quanto utopistico possa risultare, per Kant il filosofo deve proporre una nuova visione e azzardare un modello di mondo in cui la guerra dovrà sempre risultare impossibile.
Un monito e un incoraggiamento per tutti, specialmente per i potenti del mondo, di questi tempi particolarmente bui e immorali.