Annessi e connessi: il cortocircuito della storia

Gianvito Pipitone

Annessi e connessi: il cortocircuito della storia

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domenica 30 Marzo 2025 - 07:00

Caro Mik.

Annessione. È questa la parola del momento in geopolitica. Pensaci, l’avevamo studiata e ristudiata a scuola, senza mai capirla davvero. Ed eccola riproposta in questi mesi in tutta la sua devastante pregnanza. Mai così chiara come adesso. Annettere, ossia connettere in maniera forzata una cosa ad un’altra, senza tenere in alcun conto se la cosa connessa sia adattabile al connettore. Più o meno come si fa con una spina fornita di adattatore, per agganciare una presa di diversa matrice. Per funzionare, certo funziona, ma il cortocircuito è innescato. È solo questione di tempo…

Ha iniziato la Russia di Putin che in quattro e quattr’otto avrebbe dovuto annettere a sé, se non tutta l’Ucraina, almeno le 4 regioni del Donbass. A ruota, gli ha fatto subito eco Trump che, da quando è risalito a bordo, ha cominciato a pappagallo a sproloquiare di annessione (oltre che di deportazione, ma quella è un’altra storia). Non aveva nemmeno ancora finito di brindare con i suoi compagni di merenda, Vance, Musk, Waltz, Rubio, Wytkoff e compagnia cantante, che aveva già avanzato pretese sul canale di Panama. Sostenendo che, gliel’avevano progettato, poi finanziato, ed infine costruito loro! e che, in barba ai trattati stipulati, adesso lo rivogliono indietro. Come la battuta di un fortunato personaggio di Guzzanti: “ho dato poco, e quel poco adesso lo rivoglio indietro”. Divertente se non fosse drammatico.

Il secondo motu proprio di Trump è sembrato molto più ambizioso. Uno step forward si dice. Quello cioè di prefigurare l’annessione nientepopodimeno che del Canada (che non è esattamente una contrada), per farlo diventare la 51esima stellina della federazione. Allo stesso tempo, visto che i ghiacci continuano a sciogliersi (e la papera nun galleggia…), all’inseguimento di questa nuova moda delle rotte del nord, ecco che arriva puntuale la rivendicazione sulla Groenlandia. Facile come ordinare da un menu in un esclusivo Hotel Internazionale. La mattina a colazione: pancakes e sciroppo di acero. A pranzo: un bel filetto di salmone di Groenlandia. E apericena in serata a base di guacamole.

Niente male per un’America (Usa) che nell’ultimo mandato di Trump (2017-2021) aveva predicato la ritirata strategica dai vari contesti internazionali. Ma certo, solo gli stupidi e gli ingenui potevano cadere nella trappola del suo birignao. Il Maga altro non era che l’inizio di un nuovo percorso che avevamo quasi dimenticato. Quello del nuovo imperialismo. Quella linea precisa che va dall’espansionismo del siglo de oro iberico, alla compagnia delle Indie inglese poi olandese, dal Commonwealth all’ottocentesca spartizione dell’Africa fino via via ai giorni nostri.

Non so dove l’ho letto (tu dici “Terra!” di Stefano Benni) o forse è solo un incubo di fanta-geopolitica che mi perseguita, che il mondo è destinato ad essere diviso in tre grandi aree di influenza. Con l’America che punterebbe a controllare tutte le Americhe conosciute. Alla Russia andrebbe il controllo dell’Europa e ovviamente dell’Asia del Nord, e, infine, alla Cina, falso convitato di pietra, l’Asia del Sud con tutta o parte del continente nero. Chi vivrà vedrà …

Strana la storia. Ma non tanto poi. Se ci fai caso. Sono gli errori della politica spesso a generare guerre e divisioni. Ed è, bada bene, una questione di tempo, come si diceva. Prima o poi tutte le problematiche, tutti i contrasti e le divisioni sono destinate ad affiorare a galla. Guarda alla fondazione dello stato di Israele, a come sono stati “tagliati” gli stati del medio oriente, Iraq, Siria, Giordania. E l’Africa …? Sembra il lavoro svogliato di un geometra, con matita, squadra e righello: senza tenere conto delle profonde differenze interne. E cos’altro ci si può aspettare, di questi tempi così incerti e turbolenti, se non la guerra? Anzi, quasi ci si stupirebbe del contrario, interpretando con oculata oggettività l’immutabile natura dell’animo umano.

Però non facciamoci illusioni. Qua non siamo nel mondo di Lilliput o nell’Iperuranio e quindi non significa che non ci sarebbero guerre in Medio Oriente se non si fosse stato Israele. Oppure che la Russia avrebbe creato il migliore dei mondi possibili, se fosse rimasta Unione Sovietica. Semplicemente, le motivazioni per fare la guerra, con molta probabilità, sarebbero state trovate altrove.

La storia invece, incurante delle differenze, pare si riproponga, uguale nella sua diversità, oscillando in un costante e frenetico dondolio, un movimento di avanti e indietro. Spesso senza un senso. Se “annessione” pare adesso essere la parola d’ordine del nuovo ordine mondiale, fino a poco tempo fa, a fare la parte del leone era invece la parola “secessione” o anche “separazione”.

A memoria ci ricordiamo della caduta del vecchio patto di Varsavia, quando si produsse lo smembramento dell’Unione Sovietica in 16 nuovi stati e il mondo si declinò in un ordine diverso da quello conosciuto fino ad allora. I Balcani si spaccarono in almeno sei nuovi paesi. La Cecoslovacchia divise l’atomo e si smembrò in due. Unica nazione a guadagnare una più ampia fetta di prima fu a ben vedere la Germania Unita che dall’ordine di Yalta era stata ridimensionata.

Adesso, mutatis mutandis, è cambiato il vento, sembrano seppelliti i movimenti di “divisione”, ed eccoci in piena era di espansione. Evviva! E pur rimanendo forti le posizioni di piccole minoranze interne, per questioni identitarie o spesso economiche, sembra molto lontano il vento dell’indipendenza che aveva portato solo qualche anno fa in piazza milioni di persone: in Catalogna, in Scozia e in maniera più sfumata in Padania … solo per citare tre casi di “tentato indipendentismo”.

Dando uno sguardo d’insieme ai vari quadranti mondiali, la Serbia di Vucic (e come potrebbe essere diversamente) si vuole riprendere non solo il Kosovo ma anche parti della Bosnia a maggioranza serba. E se potesse riallungherebbe le mani anche su Croazia. E visto che c’è anche sulla Slovenia. Ovviamente, i nazionalisti serbi hanno sempre il sogno di ricomporre la grande Jugoslavia di Tito.

Fra i più attivi in questa nuova disciplina, quella del “prendi i soldi e scappa”, si distinguono i coloni israeliani guidati dalle frange di destra, un classico dei nostri tempi. Sarebbe bello fare ironia su questo governo israeliano, senonché bisognerebbe solo fare una cosa. Consegnare al Tribunale internazionale della Corte dell’Aia, Netanyahu e Gallant, primo ministro e ministro della difesa, su cui pendono due mandati di arresto per i continui massacri nella striscia di Gaza: utilizzo della fame come metodo di guerra, negazione di aiuti umanitari e stragi contro i civili. E invece, ringalluzzito dall’alleato statunitense, in questo ormai ampio movimento di manovra, ecco che Israele comincia a razionalizzare le prime annessioni: Giudea e Samaria (in Cisgiordania), le alture del Golan e, soprattutto, una bella fetta di Siria, fino addirittura a Damasco.

Ma qui ecco che incontra il cliente più rognoso dell’area. La più organizzata fra le potenze regionali (alle prese comunque con una turbolenza interna non di poco conto): la Turchia di Erdogan che, un pezzo di Siria ce l’aveva nel mirino e se l’è già sgraffignata, così come il Kurdistan iracheno, oltre che la Libia Tripolitania che ha soffiato alle deboli(-ssime) mire dell’Italia. Non ancora annessioni ufficiali, ma poco ci manca.

Nel frattempo il mondo arabo propriamente detto, Egitto, Arabia Saudita compresi i ricchi sultanati (Emirati, Qatar, Bahrein) sembrano troppo divisi su interessi di bottega, per avanzare pretese espansionistiche. Lo stesso Iran, dopo essere stato fiaccato dalla una serie di iniziative militari israeliane, pare leccarsi le ferite, più che altro spaventato di scongiurare una guerra civile ed evitare prese di posizione troppo estreme che taglierebbero le gambe alle sue pretese di potenza nucleare.

E mentre tutto il mondo avvampa, fra annessioni, guerre e paura per il futuro, c’è un uomo, dirigente di un partito (un partito che pensa di esser popolare ma che non lo è ormai da tempo), un uomo, dicevo, che racchiuso in una monade (quindi senza finestre) che parla alla nicchia di una minoranza, e che, dopo mesi di imperscrutabile silenzio alla sua prima uscita pubblica, così si esprime: “Ai figli solo il cognome della madre“. Also sprach Franceschini…

Ecco, ma noi, in quanto “noi”, di preciso, che cosa abbiamo mai fatto di male per meritarci tutto ciò? Si rimane senza parole, lo so. O come in autunno sugli alberi le foglie … se non fosse che è ormai primavera. Stammi bene.

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