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Un baule pieno di gente. Viaggio semiserio alla ricerca del Siciliano DOCG

Il sangue che ci scorre nelle vene è il condensato di diverse stratificazioni, sedimentazioni e contaminazioni che nel tempo hanno reso noi siciliani così come siamo.

Ed è “grazie” alle passate dominazioni straniere che il nostro dialetto, la nostra parlata, i gesti che vi si accompagnano, la nostra indole, il nostro sentire e la nostra personalità si sono arricchite fino a diventare un unicum irrepetibile. Molto spesso indecifrabile, almeno per gli stranieri. Ora, per puro diletto, qualche tempo fa con la mia compagna, ora mia moglie, ci siamo inventati una sorta di gioco, un gustoso divertissement che consiste nel classificare oziosamente la diversa indole dei vari “tipi” di siciliano.

Si tratta, in breve, di isolare il carattere preminente di alcune persone/personalità (alcuni “tipi” si prestano in particolar modo) e di associarlo alle caratteristiche peculiari di veri e propri stereotipi del ceppo etnico-storico (originario) da cui sembrano provenire. In questi tempi in cui pare utile mettere i puntini sulle i, è bene intanto sottolineare che i seguenti appunti non hanno alcuna pretesa di scientificità e soprattutto, che non c’è nessun intento di schematizzazione o semplificazione del concetto di razza, di cultura o di religione.

A chi di noi “boomers”, per iniziare, non è capitato di avere avuto una nonna apprensiva all’inverosimile, costantemente imbevuta di pessimismo cosmico, percettrice di tragedia ad ogni lieve piegarsi della fortuna? Ecco, quello della tragedia è probabilmente un tratto da ascrivere ad un’indole di provenienza tutta greca: quando cioè il corso e ricorso delle avverse fortune dà adito a slanci di autocommiserazione e a un profondo senso di vittimismo. Chi più degli Antichi Greci possono spiegare questa tendenza? Proprio loro che, imbevuti di fatalismo fino al midollo, non mancavano di affidare il loro destino al regolamento dei conti fra gli dei.

C’è poi un termine ormai in disuso che indica una fiera lealtà, una forte determinazione e una rara dedizione verso un obiettivo. Ricordo che mia nonna per suggerire qualcuno con queste caratteristiche amava dire: “beddu latinu”. Espressione da ascrivere probabilmente allo stereotipo filtrato nel tempo (nonostante tutti questi secoli) dello specimen del guerriero romano, di razza latina.

Se invece volessimo cercare fra i nostri corregionali quel tratto levantino, filiazione adamantina di un bizantinismo strisciante e mai domo, dovremmo guardare attraverso il macchinoso, pedantesco e cavilloso filosofeggiare di alcuni fra loro, specie quando siano impegnati nello sforzo di un’ ardita autodifesa. Atteggiamento sofisticato che denota in nuce una arzigogolata e stratificata personalità, spesso e volentieri “double face”.

Il leggendario tratto della permalosità, invece, cosi’ tipicamente insito nell’ homo siciliensis potrebbe rientrare nello stereotipo dell’arabo. Daltronde, dopo averci insegnato a dominare e a risparmiare l’acqua, a governare i campi in agricoltura e a costruire magnifici archi a sesto acuto, qualche difetto potrebbero anche avercelo lasciato.

Per modalità, metodi cruenti e ferocia dei loro comportamenti i normanni non furono secondi a nessuno. Dal momento in cui sbarcarono in Sicilia il loro obiettivo fu solo uno: sterminare o deportare uno ad uno ogni musulmano presente sull’isola o almeno cancellarne lingua, cultura, religione. Lavoro sporco portato a termine poi dai loro “parenti” svevi. Adoriamo il Palazzo d’Orleans, la cappella Palatina, la cattedrale di Palermo e quella di Cefalù, e tutte le magnifiche cose che l’eta’ normanna ci ha lasciato in eredità … ma in termini di crudeltà, gli Altavilla non ebbero davvero rivali. E c’è da ammetterlo: la sanguinaria mafia degli anni ’90 di Totò Riina e Binnu Provenzano non avrebbe mai osato tanto …

Chi non ha ricordi dei vecchi tempi andati, quando ci si muoveva a gruppi di una trentina persone? (magnifici anni ’80 e ’90). Bene, ci si ricorderà pure che in quelle compagnie oceaniche non poteva mancare il cascamorto di turno, quello cioè che ci provava con tutte, purché respirassero. Ecco, questo potrebbe essere un tratto identificabile con il francese angioino. Non è un mistero se la prima e l’ unica rivoluzione popolare in Sicilia (che portò alla cacciata degli angioini) fosse dovuta alle continue melliflue sguaiate avances che le nobildonne palermitane dovettero subire ad opera di quei simpatici lumaconi transalpini. Fin a quando il Moustafà o il Mohammad che covava dentro all’indole dei palermitani sottomessi e in precedenza arabizzati a dovere, non venne fuori con tutti i suoi attributi. Risultato ? Tratto arabo batte tratto francese 2 a 0 e palla al centro. Peraltro, grande nota di orgoglio se si conta che per una volta i siciliani seppero anticipare i tempi, finendo per instillare nella testa dei transalpini un certo spirito rivoluzionario … 500 anni prima che risonasse la Marsigliese.

Gli opportunisti freddi e calcolatori, coloro che giocano di rapina e che aspettano il momento per piazzare il loro colpo vincente, non possono poi che avere il volto e i tratti dei pirati turco-saraceni, di base ad Algeri nel corso del Cinque e Seicento, che tanta paura seminarono attraverso le loro scorrerie in lungo e in largo per tutta l’isola. Famoso sopra tutti il pirata Mammaddrau, al secolo Mohammed Al-Dragut, spauracchio di intere generazioni di bambini siciliani, la cui eco è arrivata ai giorni nostri. Fino a qualche tempo fa, frase tipica pronunciata ai bambini disubbidienti per scoraggiare il ripetersi delle loro marachelle era infatti: viri chi veni Mammaddrau!

La dominazione spagnola che fu lunga e complicata potrebbe aver lasciato delle tracce indelebili nell’indole di un certo tipo di siciliano. L’ampollosità barocca, una copiosa verbosità e una ancestrale fiducia nei propri mezzi (quel “gallismo”), oltre ad una buona dose di pigrizia e ignavia, di cui il rito della siesta non è che mera pratica esteriore. Tutti tratti che potrebbero essere stati amplificati durante il Regno borbonico delle due Sicilie la cui fortuna era strettamente collegata a Napoli e alla corona di Spagna. E qui mi fermo, poiché per poter enucleare i tratti salienti del nuovo siculo/italiano nato dopo l’unificazione della Sicilia al resto della Penisola, non basterebbe probabilmente un intero libro.

Ora, per finire questa veloce carrellata, mi capita spesso per lavoro di dover affrontare tavolate di allegri stranieri che, specie se per la prima volta sull’isola, si sentono allo stesso tempo spaesati, attratti e incuriositi dalla nostra cultura, percepita al minimo come costante dicotomia (dove bello e brutto coesistono insieme e allo stesso tempo), al grado massimo come irriducibile policentrismo ed impossibilita di sintesi univoca. Ad un certo punto della serata, movimentata, allegra e spesso chiassosa, innaffiata da calici di nettare degli dei, si può essere sicuri che, puntuale come la morte, arrivi la domanda che più di tutti gli stranieri si sognano di fare ad un siciliano da prima che il loro aereo abbia lasciato la pista di decollo del loro paese: “ma allora, questa Mafia?…”.

Non c’è malizia, sia detto, quanto certamente curiosità per un mito trito e ritrito, alimentato probabilmente tanto dalla cinematografia, quanto dai fatti reali che hanno nel recente passato flagellato la storia della nostra isola.

E come spiegare loro che la Sicilia è invece tanta roba, proprio come un “baule pieno di gente”, per dirla con il poeta. Un’isola che, parimenti alle sue bellezze naturali e architettoniche, non ha timore di presentare un’ altrettanta vasta geografia dell’anima, fatta di infinite stratificazioni e di tortuosi percorsi che il tempo ha trasformato in inimmaginabili tesori viventi: dove meravigliarsi ad ogni istante per le infinite pieghe del suo ricchissimo dialetto, nelle sue infide trappole linguistiche, così come nei gesti eccessivi, nelle smorfie debordanti e negli inestricabili ricami comportamentali che sono parte inscindibile dell’ indole complessa, ipertrofica e debordante delle sue gloriose genti.

Gianvito Pipitone

La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri  

L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.

Gianvito Pipitone

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