La scarcerazione di Giovanni Brusca ha suscitato reazioni diverse. Molte le voci critiche, ma tanti anche coloro che hanno provato a spiegare, di fronte all’indignazione popolare, il senso della legge sui collaboratori di giustizia, fortemente voluta da Giovanni Falcone. Tra questi, anche il coordinatore provinciale di Libera, Salvatore Inguì.
Cosa pensa della scarcerazione di Brusca?
A me non meraviglia per niente, era già messa in conto. Si sapeva che avrebbe lasciato il carcere, una volta scontata la pena che gli era stata commutata alla luce dell’attività di collaborazione e dei riscontri alle sue dichiarazioni. Si può discutere sul fatto che 25 anni possono essere tanti o meno, ma si tratta di una questione numerica che a me interessa meno. Non credo che se anziché 25 fossero stati 30, sarebbe stato diverso. Averlo scarcerato sulla base di un rapporto reciprocamente stabilito era inevitabile ed anche giusto, perchè aveva effettivamente fornito una serie di elementi ed informazioni necessarie per comprendere logiche e fatti criminosi, consentendo che si assicurassero alla giustizia altri soggetti come lui. Lo Stato non ha ceduto, ha dovuto sollecitare Brusca e tanti altri come lui a scegliere tra una vita dietro le sbarre e una prospettiva di libertà, purchè facesse quello che, agli occhi della mafia, rappresenta la cosa peggiore: il tradimento.
Spesso agli studenti, per spiegare la ferocia della mafia si fa riferimento alla terribile vicenda del piccolo Giuseppe Di Matteo. Come si fa a spiegare a loro la logica in base a cui Brusca adesso è libero?
Per indicare la ferocia di Brusca si fa spesso riferimento alla storia di Giuseppe Di Matteo, che effettivamente è un pugno allo stomaco. Quello fu un clamoroso autogol per la stessa mafia, che fece venir meno anche quel che restava di una certa concezione “romantica” di Cosa Nostra. Non è un caso che al Giardino della Memoria, nel luogo in cui il piccolo Giuseppe fu segregato negli ultimi periodi della sua lunghissima prigionia e poi ucciso e sciolto nell’acido, noi portiamo ogni anno tanti ragazzi, anche quei minori dell’area penale che si rivedono in quella vecchia concezione della mafia. Quando siamo lì e leggiamo le deposizioni di chi, materialmente, dopo aver ucciso il piccolo Di Matteo lo sciolse nell’acido su ordine di Brusca, vedo che si ritrovano a chiedersi esplicitamente “Ma sono questi gli uomini d’onore?”. Anche questa storia di Di Matteo costituisce per noi l’esemplificazione perfetta della disonorabilità della mafia, senza dimenticare che anche gli altri omicidi riconducibili a Brusca fanno orrore.
Un altro fronte delicato è quello dei familiari delle vittime di mafia. Come si fa con loro?
E’ chiaro che i familiari delle vittime di mafia sono quelli più colpiti dalla scarcerazione di Brusca. Il sentimento della giustizia italiana, però, non può essere la vendetta. Un familiare delle vittime di mafia vorrebbe il massimo delle pene, alla luce di una componente emotiva più che giustificabile. La provo anch’io, quando penso a chi ha ucciso Barbara Rizzo Asta e i suoi figli. Ma se chiedessimo allo Stato di rispondere con la legge del taglione, di agire con crudeltà, diventeremmo bestie come loro. Invece dobbiamo differenziarci, sottolineare la distanza tra il loro e il nostro modo di agire. All’interno di Libera è successo che, su certi temi, si sono registrate posizioni differenti, così anche tra i familiari delle vittime. E’ un bene che convivano e si confrontino prospettive diverse. C’è una mia amica, Luciana, moglie di una persona uccisa da un commando della camorra a Napoli, che non solo ha perdonato l’autore dell’omicidio del marito, ma si sta addirittura prodigando per il suo inserimento in società. Probabilmente si tratta di un caso estremo, ma credo che sia più rivoluzionario di una condanna all’ergastolo o alla pena capitale.
La legge sui collaboratori di giustizia, fortemente voluta da Giovanni Falcone, mantiene intatto il proprio valore o di fronte alle mutate condizioni storiche andrebbe rivista?
Sento dire spesso che la mafia è mutata, così come la sua organizzazione, e che quindi anche la legge sui collaboratori di giustizia andrebbe modificata. Io credo che la mafia non sia cambiata, è rimasta uguale a se stessa. E’ più borghese? Più legata ai colletti bianchi? Più vicina alla politica o all’imprenditoria? Lo era anche in passato. A Corleone, il capo della mafia era Michele Navarra, un medico. Cent’anni fa c’era gente già organica alla politica o all’aristocrazia. Quale sarebbe dunque il mutamento della mafia che dovremmo tenere in considerazione per giustificare un mutamento della legge sui pentiti? Ciò non toglie che tutto ciò che ha a che fare con la mafia va costantemente messo in discussione e tarato. Ma dobbiamo capire se la mafia è cambiata davvero.
Un altro argomento al centro dell’attuale dibattito politico è la riforma sull’ergastolo ostativo. Cosa ne pensa?
La pena, secondo la nostra civiltà giuridica, non è un atto di vendetta. La Costituzione prevede la protezione della società dalle azioni criminali, ma anche, la rieducazione del reo. L’ergastolo con un fine pena mai, che non consente a una persona ormai giunta ad età avanzata di poter uscire anche solo per poter morire sul suo letto, va bene se è fatto per impedire al boss di esercitare il suo mandato di capo, il suo prestigio, il suo ruolo di comando e preminenza. Non gradisco, invece, un accanimento che ci fa scendere al loro livello, se il soggetto in questione si trova in assoluta incapacità di nuocere. Questa differenza è importante sottolinearla: se i boss hanno avuto in spregio il valore della vita umana, noi dobbiamo continuare a tenere alto il valore della vita umana, anche della loro.