Ricorre oggi la Giornata Nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo. Un’occasione per riflettere su un fenomeno che negli ultimi anni ha visto un ulteriore incremento nella popolazione giovanile, tanto che le più recenti statistiche affermano che un ragazzo su quattro, in Italia, è stato coinvolto in episodi di bullismo. Quel che più inquieta è, poi, l’abbassamento dell’età delle vittime e dei bulli: se un tempo il fenomeno era concentrato maggiormente nella fascia d’età compresa tra 14 e 16 anni, adesso si comincia già tra i 7 e gli 8 anni.
Per troppo tempo, purtroppo, le istituzioni hanno fatto finta di non vedere e non sono pochi, tuttora, gli adulti che di fronte ad aggressioni del branco nei confronti dei soggetti più deboli tendono a dire che “certe cose sono sempre accadute” o che “si cresce anche così”. In passato, il modello sociale tollerava il “nonnismo” dei più grandi verso gli studenti con qualche anno meno (le cosiddette “matricole”), lasciando pensare che questi ultimi sarebbero tornati in pari con la vita riservando lo stesso trattamento, qualche anno dopo, ai nuovi arrivati. Una sorta di percorso di formazione, insomma. Utile a forgiare carattere e capacità di autodifesa. E se qualche situazione finiva male, si tendeva a insabbiare tutto. Come se – non me ne vogliano i militari – la vita fosse la riproduzione su scala più ampia dei riti iniziatici di una caserma. Il progresso tecnologico ha ulteriormente peggiorato la situazione, dando ai bulli la possibilità di utilizzare il web come teatro delle proprie performance e, soprattutto, di ampliare la platea di fronte a cui mortificare le proprie vittime. Con colpevole ritardo, da qualche anno a questa parte, le istituzioni hanno cercato di far rientrare i cavalli dentro il recinto, promuovendo campagne di sensibilizzazione mirate cui non sono spesso seguiti comportamenti consequenziali. In troppi casi le scuole hanno preferito continuare a nascondere lo sporco sotto il tappeto. Anche perchè, accanto ai bulli si dovrebbero punire pure gli spettatori, che con la loro complicità determinano l’isolamento delle vittime.
Eppure, basterebbe chiedere (ai bulli e ai complici) cosa penserebbero se ad essere vittime di azioni persecutorie, violenze fisiche e psicologiche fosse i loro fratelli che frequentano altre scuole. O, in futuro, i loro figli. Me li immagino già mentre trasformano il loro ghigno strafottente in un’espressione improvvisamente seria e contrita. Perchè, in definitiva, è proprio la mancanza di empatia uno dei grandi mali del nostro tempo: che non consente di rispecchiarsi in un compagno di classe tartassato dai capetti del branco per il proprio aspetto fisico o la propria timidezza; o che alimenta il cortile delle maldicenze gratuite rovinando la reputazione di una persona poco gradita; o, ancora, che ingrassa sentimenti xenofobi nei confronti di chi arriva nel nostro Paese sfuggendo ad altre violenze ed altre persecuzioni. Come se il mondo fosse diviso, a tutti i livelli, in due categorie e la felicità degli uni abbia bisogno dell’infelicità degli altri.
A ben vedere, è una catena di vasi comunicanti tra loro. Spezzarla fin dall’inizio, puntando su un modello educativo diverso, è uno degli investimenti più importanti che possiamo fare per il nostro futuro.