Le due Sicilie di Borsellino e Camilleri

Chiara Putaggio

Le due Sicilie di Borsellino e Camilleri

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giovedì 18 Luglio 2019 - 07:25

Due Sicilie che si guardano, si toccano talvolta, si immergono l’una nell’altra e altre volte ancora si taliano a scurnare. Sono quelle che emergono dai due fatti di rilievo di questi giorni. La desecretazione, da un lato, delle audizioni di Paolo Borsellino alla Commissione parlamentare negli anni ottanta, e dall’altro la scomparsa di Andrea Camilleri.

Tocca il nostro cuore di siciliani sentire la voce di Paolo Borsellino (già procuratore di Marsala e perciò ancora più nostro, in un certo senso) che, senza urlare (anche se ne avrebbe avuto ben donde) riferisce l’estrema difficoltà di combattere la mafia con una sola auto e neanche a tutto servizio, senza computer e quando arriva, viene sistemato in un camerino e non è subito utilizzabile. Ci torna alla mente il tempo lontano della strage di Ciaculli, quando ai carabinieri mancavano financo le scarpe. Eppure Paolo, anni prima della tragedia di 27 anni fa, parla ad un Parlamento che è emblema del pentapartito guidato dai socialisti.

Negli anni ’80 l’Italia neppure immagina la crisi che verrà. Io e i miei coetanei studiavamo a scuola, è vero, la questione Meridionale, il dislivello tra Nord e Sud, ma si viveva di speranze. I nostri genitori lavoravano tutti. Nessuno faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena e noi bambini eravamo convinti che avremmo potuto scegliere il nostro futuro. Era il tempo del cosiddetto boom economico. Dello “scontiamo la lira” e si sta meglio. Tutti compravano o costruivano casa, tutti o quasi si sposavano, facevano figli. C’era fiducia nell’oggi e nel domani. Ma era tutto un grosso inganno. Ce ne siamo accorti da almeno un decennio a questa parte e chi governava allora lo sapeva già. Si stava meglio, senza dubbio, ma già – anche se non lo sapevamo ancora – si stava peggio. Chi invece lo sapeva era Paolo Borsellino che faceva pure il segretario, il dattilografo, l’amanuense per molte delle 18 ore in cui lavorava ogni giorno, perché il personale ausiliario non faceva straordinario. Ecco, come doloso era l’inganno al Paese, che si stesse bene e che questo benessere sarebbe stato duraturo, altrettanto doloso è stato lasciare solo un pool di giudici che lottava contro Cosa Nostra, specie in un tempo in cui “i soldi c’erano”, o almeno così sembrava.

A questa Sicilia povera, anche quando credeva di non esserlo, si contrappone quella bellissima raccontata dal maestro Andrea Camilleri, ricca di gente “sperta” piena di ironia, memore di una storia classica, greca, ma anche fastosamente barocca, costellata da una natura florida anche quando è arida, perché piena di sole, di un mare che è terapeutico, che è una via di fuga e di ristoro, che educa alla bellezza. Eppure si intravede, nella rete di relazioni tra i personaggi, una sorta di decadentismo strutturale di un tempo agricolo, ad esempio, perduto, senza un vero perché e senza essere sostituito da nessuna vera alternativa. Camilleri sperava e ci lasciava sperare. Credeva nel bene, anche a cospetto del male e la chiave dell’ironia era un gancio per non annegare mai. Camilleri vedeva nella bellezza della sua terra e nell’intelligenza rappresentata dai suoi protagonisti la chiave per farcela, per risolvere casi impossibili, la capacità di capire il male, di dialogarci anche, per riuscire a batterlo, senza aver la pretesa di sconfiggerlo definitivamente, secondo una concezione dialettica dell’esistenza umana. In “Conversazioni su Tiresia” Camilleri rivela al suo pubblico, che “A novant’anni gli è venuta la volontà di intuire cosa sia l’eternità”. Ebbene, forse basterebbe ascoltare la voce di poeta di Andrea Camilleri e la voce di magistrato di Paolo Borsellino per consegnare questa nostra terra all’eternità. Per abbandonare le false illusioni e trovare soluzioni dove “il fresco profumo di libertà” possa finalmente rinfrescare il nostro meraviglioso Paese.

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