Giornalismo e prostituzione

Vincenzo Figlioli

Marsala

Giornalismo e prostituzione

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martedì 13 Novembre 2018 - 06:10

Per il Ministro Luigi Di Maio, la stragrande maggioranza di noi è costituita da “infimi sciacalli”. Per l’ex deputato Alessandro Di Battista siamo “pennivendoli” e “puttane”. Ai tempi di Berlusconi eravamo tutti “comunisti”, tanto da meritare editti bulgari e ostracismi, mentre con Renzi siamo stati anche “gufi”. Se c’è una costante che accompagna l’alternanza del potere nei vari cromatismi politici è la ricerca di nemici. Qualcuno su cui rovesciare astio e fango per serrare le fila dei propri tifosi e spostare l’attenzione dalle difficoltà incontrate dalle compagini governative.

Poco importa, adesso, cosa pensi l’opinione pubblica sulle vicende giudiziarie di Virginia Raggi, del papà di Renzi o di Berlusconi. Sparare sui giornalisti è un esercizio molto semplice e redditizio. La nostra è una categoria costantemente sotto i riflettori, che svolge un ruolo delicatissimo in condizioni spesso difficili. Scrivere ogni giorno significa raccontare fatti che in molti vorrebbero occultare: dalla politica alla cronaca, passando per la giudiziaria, ogni giornalista che si rispetti ha pubblicato nomi, fotografie e ricostruzioni in osservanza a quel dovere di cronaca che costituisce l’unico modo per garantire alla collettività il diritto alla libera informazione. Ogni titolo, ogni articolo, è una presa di posizione, un modo con cui ci esponiamo al giudizio di chi ci legge. Tanto più se, com’è giusto che sia, rivendichiamo il nostro diritto ad andare oltre il mero racconto dei fatti, esprimendo anche le nostre opinioni e la nostra visione del mondo. Di fronte ad un arresto, c’è un uomo che va in carcere e una famiglia che, comprensibilmente, stringe i pugni per la rabbia di fronte a quella che ritiene un’esposizione alla gogna pubblica. Magari ci scrive, a volte in maniera cortese, a volte ricoprendoci di insulti, fino a minacciare visite poco amichevoli in redazione. Stessa cosa avviene con i politici. In generale, chi occupa incarichi pubblici non ama la stampa e al massimo la tollera. Fino a quando parliamo di altri, manifestano anche parole di ipocrita stima per la serietà con cui svolgiamo il nostro lavoro, ma appena ci azzardiamo ad esercitare il minimo diritto di critica nei loro confronti cominciano a guardarci come il loro peggior nemico, minacciano querele e magari telefonano ai nostri inserzionisti cercando di convincerli a non acquistare più spazi pubblicitari da noi. Chi vuole fare questo lavoro deve avere ben chiaro tutto ciò: chi cerca solo applausi e consensi, non può fare il giornalista. Chi non vuole rogne, non può fare l’editore.

Attenzione: con questo editoriale non intendo condurre una difesa d’ufficio della stampa a 360°, perché so bene che all’interno della nostra categoria tante cose non vanno. Un esempio: in diverse occasioni, qualche lettore ci ha contattati per segnalarci iniziative o notizie meritevoli di essere raccontate. Di fronte alla nostra disponibilità, è arrivata la fatidica domanda – “Quanto vi dobbiamo?” – immediatamente stoppata con fermezza (“Gli articoli non si pagano”). Se però qualcuno pensa che le notizie si pubblicano a pagamento vuol dire che nel presente, o più probabilmente, nel passato, qualcuno fosse solito accogliere la generosità dei propri lettori, infischiandosene della deontologia professionale e magari preferendo concentrarsi sulle bollette da pagare per mantenere in vita la propria attività editoriale. Ho fatto volutamente un piccolo esempio, perché in altri tempi errori ed omissioni sono stati ben maggiori ed hanno contribuito, tra le altre cose, a tenere in vita sistemi di potere in cui convivevano politica, mafia e circoli massonici. O ad accettare le regalie delle lobbies, che hanno tutto l’interesse a condizionare certi racconti a proprio vantaggio. In tutto ciò, va detto, l’Ordine dei giornalisti è stato a lungo colpevolmente silente.

Gli errori e le miserie che trovano spazio in questo come in altri settori professionali non possono però in alcun modo legittimare la campagna di denigrazione che i rappresentanti delle istituzioni stanno conducendo con sempre maggiore determinazione in questi mesi contro la stampa. Perché se oggi Di Maio e Di Battista attaccano i ricchi gruppi editoriali, domani i loro epigoni si sentiranno legittimati a invocare la chiusura dei giornali, delle tv o delle radio del loro territorio, trascinando con sé tanti ignari cittadini che non hanno idea di come funzioni questa professione, né con quanta dignità la maggior parte dei cronisti locali affrontano le fatiche di ogni giorno per salvaguardare il diritto della propria comunità ad essere informata in maniera corretta e leale, esercitando quello che Indro Montanelli definiva “il rispetto per il lettore”, l’unico vero editore con cui ogni giornalista deve misurarsi nella sua delicata attività quotidiana.

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