E’ stato il responsabile della libreria di Piazza Loggia a informarmi che la sera del 26 luglio, alle ore 21 precise, Alessandro D’Avenia sarebbe salito sul podio per presentare il suo ultimo libro Ogni storia è una storia d’amore. Ma io non ho voluto dare importanza alla puntualità, mi interessavano le domande che gli avrei posto, da collegare possibilmente a quanto avevo letto nel precedente libro L’arte di essere fragile – Leopardi può salvarti la vita. Avevo però fatto male i conti. Pensavo che anche se fosse arrivato in ritardo avrei trovato una sedia libera e lo spazio per fare almeno una domanda. Ma i posti, circa duecento, tutti occupati, costringevano ai ritardatari di stare in piedi ad ascoltare. Si trattava del doppio delle persone sedute, compresi tre sacerdoti e altrettanti suore – rigorosamente con il volume sotto il braccio – che facevano da corona al grande palco, su cui passeggiava, in lungo e in largo, con il microfono che padroneggiava disinvoltamente lui, Alessandro D’Avena il dominatore (e il domatore) assoluto della scena.
Biondo, con i capelli un po’ lunghi, accattivante, appena quarant’uno anni compiuti, aveva scritto sei libri, tradotti in tutto il mondo, da cui, Bianca come la neve e rosso come il sangue, era stato nel 2010 tratto il film omonimo, che aveva riscosso grande successo soprattutto fra le ragazze e i ragazzi. Si è visto anche quella sera che i giovanissimi, la maggior parte liceali, erano accorsi numerosi. Così come in parecchi erano i suoi colleghi, essendo egli un insegnante di Lettere al Liceo. Un mestiere che definì più volte affascinante. Mentre parlava della sue esperienza di docente e dei ricordi della scuola più che uno scrittore sembrava un attore, un prim’attore; in alcuni momenti dava l’impressione di stare di fronte a un istrione, nel senso più alto e pregnante del termine. Disquisì per quasi due ore senza che nessuno dei presenti mostrasse insofferenza. Probabilmente avrebbe continuato a lungo se non fosse stato interrotto dallo stesso titolare della libreria Mondadori, il quale gli ricordava che una volta terminata la presentazione, l’aspettavano le dediche che doveva apporre sui libri che aveva venduto ai suoi clienti. Non c’erano le premesse, ma immaginai ugualmente l’ipotesi dell’impossibilità: chissà quanto tempo avrebbe riservato alle sue risposte se ci fossero state delle domande. Cosa che ogni autore auspica che avvenga.
Ma il problema era diventato a quel punto il tempo materiale che sarebbe servito per le dediche. Invitò il pubblico ad alzare il volume in alto e annotò con orgoglio una quantità esorbitante che gli avrebbe però creato un sacco di problemi. Per risolverli ebbe un’idea geniale. Propose che la metà di volumi al posto suo li firmasse sua sorella. Per alcuni parve una battuta, per altri invece, a giudicare dalla reazione, una temerarietà, bella e buona Qualcuno osservò che non si è mai visto che un autore delegasse qualcuno a svolgere un ruolo, anzi un rito, legato intimamente alla persona dell’autore. Ciò detto soffermarsi ancora su questo aspetto, a prima vista, può sembrare fuori luogo. Ma quella sera nell’Atrio Comunale di Marsala la questione della delega e il modo con cui era stata affrontata assumevano una valenza rilevante dello “spettacolo”. Molti erano venuti oltre che a sentire l’autore anche per avere una sua dedica autografa. Nel mezzo del trambusto a me non rimaneva altra scelta che quella di guadagnare una posizione favorevole per ottenere anch’io la dedica tanto agognata. Nel frattempo Alessandro, non curandosi del caos che si era creato, si era avvicinato a un lettore che stava seduto su una sedia a rotelle, accompagnato dalla madre. Con lei scambiò alcune parole, forse le stesse sussurrate qualche istante prima all’orecchio del ragazzo mentre accarezzava il suo viso raggiante di contentezza, nel vedere il suo scrittore preferito dedicarsi a lui con tanta delicatezza e affetto. Giusto il tempo per risalire sul palco e imbattersi in una signora elegante sulla settantina che lo attendeva con una pila di libri e su ciascuno aveva chiesto e ottenuto una dedica personalizzata per ogni nominativo che enumerava con ordinata successione.
Quanto a me mi limito soltanto a segnalare di aver vinto una battaglia civile ingaggiata con la sorella, verso la quale manifestai simpatia e solidarietà, nonostante con risolutezza mi chiese di mettermi in fila in una fila che non esisteva. Finalmente riuscii a sottoporre all’autore il libro che avevo chiesto in prestito a mio fratello. Prima di iniziare a scrivere la dedica mi chiese cosa facessi nella vita. Gli risposi che ero pensionato. “Dire pensionato – aggiunse con tono scherzoso e a un tempo serio – non vuol dire niente”, guardandomi dritto negli occhi. Con non poca ritrosia dissi che anch’io ero uno scrittore. “In erba?” Non so se fosse una battuta. Ma a me piacque, così come la dedica fatta a mio fratello, convinto che fossi io il destinatario.: “ A Luca, ciò che sai amare rimane!” Con affetto. La firma: una A gigantesca, dentro un grande cerchio. PS: Alessandro D’Avenia terminò di vergare la sua ultima dedica all’una e mezza dopo la mezzanotte.
Filippo Piccione