“Vi lascio incantare…” sono le parole con cui l’attore Salvo Ciaramidaro annuncia il “suo maestro” Giorgio Magnato sulle scene del Baluardo Velasco. Mai parole furono più precise, diligenti per descrivere la “Rapsodia” interpretata da un immenso Magnato sul palco di quello che, a suo dire, è una Catacomba, “il rifugio dei nostalgici”, di chi si ripara dai danni prodotti dalla morte della cultura nel Belpaese. Il commendatore della Repubblica si presenta al pubblico, poco ma buono, con un recital in prosa e in poesia intervallato dai commenti/monologhi del “nostro” ed è lì che viene fuori la forte personalità di un uomo che esordisce nudo: “Dico ciò che penso… è il mio più grande difetto. Non ho padroni e il Padre Eterno non mi potrà dire, un giorno, che sono stato un ipocrita… se non sul palco, perché l’attore è i suoi personaggi, lo fa con onestà”. Il destino ha scelto che Magnato avrebbe dovuto fare l’attore, perché ha una capacità straordinaria non solo di rappresentare ma anche di infondere nello spettatore impulsi, ardori ora di commozione, ora di rabbia ed ilarità, parlando a tutti i cinque sensi. E’ qui che si manifestano i 2, 3, 4 Magnato che si muovono all’interno di uno spettacolo diviso in due parti: quella dialettale e quella in lingua. Il “debutto” al Baluardo è drammaticamente profondo con Ignazio Buttitta e “ncuntravu u Signuri”, “Un Signuri” che vagabonda anche oggi per le strade del mondo e il cui sacrificio fu inutile al cospetto delle guerre. Magnato rende vivo, con umiltà, anche il più farsistico Buttitta, scorci di una Sicilia che, da qualche parte, conserva ancora la bellezza sospesa del suo tempo, simbolo perpetuo che la risata può nascere altresì dai più raffinati intellettuali. L’espressione segnata del volto, “l’imposizione” teatrale delle mani, il silenzio del teatro è sacro per “Lu cantu di l’emigratu” di Turi Sucameli, in cui l’attore marsalese rispetta fedelmente la cadenza metrica del poeta, impersonificando l’uomo costretto a lasciare la sua terra natìa. Continua così il “bipolarismo scenico” con “A soggira”, con “Lu dubbio” di Peppino Denaro, con i versi poetici di Fifi Maiorana Salerno. Quando Magnato apre la seconda parte in lingua, la potenza delle parole non si disperde ed anzi si conserva e, probabilmente, si fa più forte. Prima di infondere sdegno con “Il rospo” di Victor Hugo – inscenando la violenza dell’uomo sugli indifesi, in questo caso gli animali – il regista di Lilybaeum si scaglia contro la corrida definendola “massacro artistico”, in cui un torero vestito a festa uccide un animale vessato e dove un “popolo” applaude la sua vittoria. Un “massacro artistico” che è anche altro: è figlio di una sotto-cultura per cui, anziché elevarla, dovremmo provarne sdegno e vergogna. “Se un uomo uccide una bestia è sport, se una bestia uccide un uomo è ferocia”, ricorda. Lo spettacolo termina con due brani di Giovanni Papini tratti da “Storia a Cristo”. Con “Preghiera al Cristo” Magnato rispetta con musicalità beethoviana i versi provocatori della ricerca della verità, “qualunque essa sia”. Ed ecco che un nuovo Cristo viene raccontato, quello che si insinua nella “bellezza che prescinde da ogni credo” e che, con avidità, “milioni di Giuda hanno baciato”. “Il diavolo” del Papini è il saggio con cui l’attore saluta inquietamente il suo pubblico con l’impegno di tornare: “Al quinto atto Satana porta a compimento il suo lavoro perché l’uomo è debole, è la posta suprema tra il Creatore ed il distruttore”. L’opera scritta nel 1953 ed interpretata da Magnato, ci sbatte in faccia quanto attuali siano gli intellettuali che oggi, però, ci hanno lasciati soli a combattere una lotta già persa in partenza, quella tra governanti e governati, tra i primi e gli ultimi. Ma noi ultimi e mortali aspetteremo ancora una volta, sul palco del Velasco, Giorgio Magnato.
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