Nel teatro di Rino Marino, “La malafesta” il nuovo castello kafkiano

Claudia Marchetti

Nel teatro di Rino Marino, “La malafesta” il nuovo castello kafkiano

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lunedì 15 Dicembre 2014 - 16:12

“La malafesta” è lo spettacolo teatrale che, per il dodici e il tredici Dicembre 2014, Rino Marino, in coppia con l’attore Fabrizio Ferracane (altra figura d’oc), ha programmato al “Selinus” di Castelvetrano. Rino Marino è autore del testo scritto, oltre che regista e delle scene e dei costumi. Una cassetta degli attrezzi piuttosto delle rovine del tempo, collassata per implosione e complice costellazione desolata, che si porta addosso il carico della polvere degli anni inattuali, come possono essere quelli che colorano la “durata” degli scalognati di questa “malafesta” teatrale, il valzer in-fermo della festa della lingua persa tra i raggiri delle sfumate balbuzie dell’ironia e il sarcasmo dei corpi della voce, mimata con inusitata leggerezza interpretativa. La cura delle luci è invece di Marino-Ferracane. Il trucco di Anna Barbaresi. Assistente alla regia, Gianluca Gianbalvo. Assistente scenografo, Liborio Maggio. Effetti sonori, Antonio Bonanno. Compagnia teatrale, Sukaifa TeatrUsica. Certo è che il tema di questa pièce (sensuata dalle musiche di Mimmo Accardo) è ancora il ritorno del poeta (Rino Marino) su una delle idee più costanti del suo pensiero artistico, il tempo e le sue insormontabili aporie costitutive. I paradossi cioè che ne qualificano le dimensioni come punti di soglia e taglio (tempera oltre che cesura, frattura). Il taglio della divisione (passato, presente, futuro, possibilità e impossibilità di scelta, continuità e discontinuità dello scorrere, kronia e akronia) e dell’indivisibilità (il presente del passato, o simultaneità inscindibile di contemporaneo e non contemporaneo). L’intreccio e l’intersezione che struttura la vita storica e temporale di un soggetto, dei soggetti. I soggetti che drammatizzano la dia-lettica immobile di essere e non essere. I soggetti cioè capaci (anche) di un’impossibilità piuttosto che di una possibilità reale, ovvero di una possibilità (come recita il compagno di “taddarita”) attualizzabile. Così l’alter ego (il due-di-uno) di “taddarita” – il nome del soggetto che si sdoppia nell’immagine “eterotipica” (la figura riflessa e speculare che bussa alla porta (un sostituto dello specchio) del dormiente-sveglio “taddarita” – è l’“io” di un io, e pro-nome come metafora. Il meta-pherein dell’impossibilità d’essere soggetto personale sostanziale che sa scegliere e decidere tra bussare e non bussare, aprire e non aprire. Tant’è che nell’impastoriato paradosso del dialogo-monologo, “io” è sempre lì a raffigurarsi come un processo che ha in testa un tramaglio di ami e lenze inestricabilmente connesso; uno “gnommero gaddiano” impossibile e mostruoso che impedisce a un pensiero di farsi de-cisione e scelta determinata. Un pesce che finalmente potesse abboccare e uscire dallo sciame retificato, inseparabilmente mescolato. Rimane così, invece, l’indeterminazione, lo stato di movimento-in-quiete uniforme che blocca l’azione discriminante. L’azione tuttavia non scompare. Cambia solo forma: si fa egualmente azione visionaria presentandosi come una mano che, in esterrefatta simbiosi, dipinge e trasforma il volto e il corpo del due-di-uno nel passaggio dei “fantasmi” dall’immaginario spettrale alla corporeità danzata delle visioni allucinate e grottesche, per poi ritornare nell’indifferenziato della notte che spegne le luci. Quelle stesse luci gradanti che all’inizio dello spettacolo ne avevano portato in scena il dramma tragi-comico in veste logo-linguistica straniata. Il luogo/tema di questa scena tanto paradossale quanto comico-grottesca – la cui deformità grava e curva la plasticità della mimica dei corpi e dei volti degli attori in azione spettrale, dis-tratta e sospesa in gesti e azioni allucinati quanto reali – è, infatti, il linguaggio e uno scavo (che non si è risparmiato la smorfia e la sua versione verbo-gestuale). Uno scavo nella sua potenza di tessuto inespugnabile agli attacchi dell’improba fatica de-cisoria del logos (linguaggio e pensiero) che argomenta o contro-argomenta superando le contraddizioni che “ammalano” (mi sento male, dice infatti “taddirita”, in uno dei momenti finali e culminante dello spettacolo). Si rimane così inchiodati alla porta dell’ingresso oscillante e paralizzante che, per analogia e rimando, è così somigliante a quell’altro ingresso dietro cui è stato invece condannato ad aspettare l’autorizzazione l’“agrimensore” del castello di Kafka. Nell’opera teatrale di Rino Marino, l’ingresso invece è il linguaggio come soglia. Poco importa se il linguaggio è quello della “parole” dell’idioletto siciliano. La poesia non conosce lingua che non sia la propria per dirsi e farsi ascoltare, e il teatro, per chi scrive, è uno dei suoi spazi privilegiati rispetto a quelli virtuali della “chiacchiera” imperante; quella dei mercatini linguistici della banalità dei messaggini estetizzanti il sì o il no della digitalizzazione elettro-immateriale, svuotati e svuotanti di senso e conflitti. Scegliamo (allora) l’alternativo del nuovo del castello kafkiano, il linguaggio e la sua insonne problematizzazione. Il castello della lingua come luogo di decisione indecidibile. Un edificio dove si rimane inchiodati ed impossibilitati ad entrare ed uscire definitivamente pur entrandovi e uscendovi ripetutamente; un via vai e un’iterazione permanente tra le sue articolazioni gordiane, teatralmente vissute e proposte. Un paradosso vitale o temporale-intemporale. Non è un caso che l’orologio (su una vecchia sedia e alle spalle la valigetta dei vissuti spettrali) di questo spettacolo segna sempre l’ambivalente cifra quanto ambigua ora: le “8”. Sono le ore otto?; le ore venti; di giorno; di notte; la notte del giorno; il giorno della notte?, o il segno ∞ (infinito) e tautologico simbolo che si attorciglia…

Antonino Contiliano

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