Quel dolore spinoso, stringente, che affligge il petto e la gola quando sai di aver fatto qualcosa di male, o meglio, sai che hai lasciato che il male sia. È questo il sentimento estremamente educativo, capace di scendere giù giù, nel profondo delle persone dove si trova la coscienza, che viene risvegliato già dalle prime battute di “Alan e il Mare”. Chiamarlo spettacolo non si può, perché urla, senza mai gridare, dentro le pance di chi l’ha visto.
Non era pieno il Teatro Impero domenica pomeriggio, ed è stato un peccato, un’altra occasione mancata per comprendere un po’ di più della natura umana. Alan e il Mare – scritto e diretto dal regista Giuliano Scarpinato – (è una produzione CSS Teatro Stabile di Innovazione del FVG e Accademia Perduta a Marsala promosso e patrocinato dall’Amministrazione comunale) racconta la storia di Alan Kurdi – il piccolo profugo siriano annegato nel settembre 2015 e ritrovato sulla spiaggia di Bodrum – ma lo fa in un modo del tutto insolito, usando la struttura della fabula, propria del teatro ragazzi di tutti i tempi. E non deve scandalizzare che la fantasia soccorra una terribile verità storica, anzi, la scelta stilistica è un’opportunità per parlare, per far vedere (questo fa il teatro) una scioccante verità immaginando un finale altro, fantastico e perciò sopportabile. Di certo non è una fiaba dappoco, anzi è sostenuta da letterature di tempi e luoghi diversi.
In apertura la citazione al film di animazione Disney “Pinocchio”, dove i due attori in scena – Federico Brugnone (il papà, novello Geppetto della post primavera araba) e Michele Degerolamo che interpreta il piccolo Alan – mimano i giocattoli meccanici, i cucù della bottega del falegname. Il legame tra padre e figlio danzano sempre, colorano con movenze acrobatiche e quasi magiche uno scenario minimalista e nero, come nera è questa vicenda nella sua cronaca. Il rapporto tra i due, come nell’evocativo e a tratti mistico libro di Collodi, è estremamente intimo e moderno. Ma Alan, a differenza del burattino la cui notorietà è seconda solo a Gesù (un altro bimbo donato dal cielo ad un falegname) non ha tempo e modo di combinare guai. Li subisce. Lo stratagemma del padre per strapparlo alla guerra è lo stesso de “La Vita è Bella”. Il padre mente, parla di un viaggio al mare. Pinocchio scappa perché non vuole andare a scuola. Alan vorrebbe farlo, ma non può. La scuola non c’è più. Così obbedisce, i due camminano per due giorni fino al porto e si imbarcano. Poi “è arrivata l’onda”, rivela il padre alla foto viva della moglie morta (Elena Aimone, che pure sorride in video) e Alan è finito in mare. A questo punto Collodi avrebbe mandato in soccorso una balena (che tuttavia viene citata) ma è tutto un sogno che serve al padre per sopravvivere, mentre durante la veglia viene imbrigliato tra le carte e gli incartamenti che davvero sfiancano i richiedenti asilo. Però durante il sogno il padre vede Alan padrone del mare, lo sente, lo porta a Parigi a divorare interminabili baguette e a Roma a giocare a calcio nel Colosseo tra animali fantastici. Alan si trasfigura in un novello Colapesce che sorregge non la Sicilia, ma la forza di vivere e di sopravvivere. È un ponte vero verso il futuro al punto che caccia il padre quando sta per abbandonarsi alla morte. Non ci sono fate turchine che salvino il bimbo, ma c’è la polvere di stelle che unisce cielo e terra e dà una flebile speranza.
È mistico questo spettacolo (ora sì che lo chiamo così), mistico, a tratti messianico. I bambini ci salveranno. Solo loro.