Deadpool è tra gli eroi più popolari del cinema supereroistico dei nostri tempi. E considerando che il franchise del Marvel Cinematic Universe è il più redditizio del mondo e il più capace di invadere le platee planetarie, al tal anti-eroe va riconosciuta una certa “significatività” mediatico-culturale.
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Il personaggio di Deadpool gioca con sarcasmo sul rapporto che abbiamo con il dolore e la morte. Gioca, nel senso stretto del termine, invocando allegramente a sé lo strazio delle carni, l’amputazione, la mutilazione e il disfacimento, e istantaneamente neutralizzandoli. Il suo potere è proprio questo: la rigenerazione immediata; l’eliminazione radicale delle conseguenze del dolore e, infine, della morte. C’è un tratto masochista. Lo si può leggere anche a partire dalla maschera e dal costume, che richiamano espressamente certo abbigliamento Zentai, fetish. E questo masochismo “innocuo” piace non poco alla società occidentale.
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Il personaggio in questione è, in un certo modo, la versione pop dell’Oloturia della Szymborska. Cioè ha molto in comune – e anche questo si sintonizza decisamente con il carattere di Deadpool – con quella sorta di strano essere marino a forma di cetriolo che in Sicilia è chiamata, più francamente, Minchia di mare. O meglio ha molto in comune con la sua trasfigurazione poetica.
Mi spiego meglio.
Nella poesia della Szymborska, l’oloturia assume una potente forza simbolica in virtù della sua capacità di addomesticare la morte e il dolore: se predata, essa strappa da sé metà del proprio corpo; lascia sé stessa al pasto altrui nello stesso momento in cui salva la propria vita. Nel mezzo del suo corpo si apre un abisso / con due sponde subito estranee. In questa auto-amputazione c’è il potere di accogliere il dolore e insieme di vanificarlo. Un potere che, per gli uomini, però è solo auspicato, desiderato. Szymborska, che chiude la poesia con il claustrofobico abbraccio dell’abisso, sa benissimo di vivere in una società che Byung-Chul Han definisce “anestetizzata”: allergica e intollerante al dolore.
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In questa analgesia, il filosofo tedesco-coreano, trova il seme della deriva della società occidentale. L’espulsione della sofferenza provoca, paradossalmente, la profondissima paralisi psichica e sociale del nostro tempo. E in questa condizione “svuotata”, un Deadpool-Minchia di mare rappresenta una via di fuga, un fantasioso e esilarante auspicio di auto-emendazione.
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Si noti questo. Byung-Chul Han ha dedicato molta della sua produzione alle nostre patenti contraddizioni: ha esplorato le patologie psichiche che albergano nella stanchezza, nell’agonia dell’eros, nell’ossessione per la trasparenza, nella violenza. Il suo La società senza dolore, del 2020, scritto in piena pandemia, chiude un poco il cerchio su questi temi, cercando di spiegare come una delle fibrillazioni profonde della società occidentale risponda proprio al desiderio isterico di allontanare totalmente il dolore. Viviamo in un mondo in cui le retoriche “dolorose” della fatica e del sacrificio sembrano confinate al luogo comune. Del loro valore positivo c’è traccia in parola, ma non in corpo. Lo sappiamo. Moltissime delle innovazioni sociali, culturali e tecnologiche, sono orientate all’abolizione del dolore in tutte le sue forme. Homo comfort ha scritto Stefano Boni, elencando e analizzando come questa tendenza abbia prodotto una enorme perdita di competenza e consapevolezza. Del dolore si ha una sorta di paura “pura”, senza sfumature. Deve essere evitato. E quando lo diamo, una serie di dispositivi retorici ne edulcora la pregnanza e la corporalità. Pensiamo ai regimi discorsivi che governano la guerra – magari “giusta” – o, più banalmente, la macellazione degli animali. L’algofobia rende desiderabile una anestesia permanente. Tanto con i farmaci quanto con il politically correct. Per questo è meglio lasciarsi bombardare da migliaia e migliaia di immagini del dolore: l’ “abitudine” è la ghigliottina del pathos. Per questa strada, il filosofo vede apatia e individualismo radicale.
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Per esempio, in uno dei passi più ficcanti – anche perché più analitico – cerca di indovinare da dove arriva il grande equivoco dell’Intelligenza Artificiale. Individua come la raccolta e la comparazione di informazioni che siamo tentati di demandare sempre più all’IA siano semplicemente calcolo. Il pensiero è una cosa diversa. Esso è costruzione delle forme mentali – e perciò anche di sentimenti, di identità – per mezzo di successive addizioni e sottrazioni; confronto dialettico con l’Altro, e fatica nell’accoglienza dell’Altro: poiché consuonare con il diverso, l’alternativo, permette di ricostruire e ampliare, ma a patto di distruggere prima. E il pensiero è tanto più profondo quanto più è doloroso il gesto psichico di mettere in dubbio le proprie convinzioni e i propri saperi per trasformarli in qualcosa che è nuovo. In questo processo c’è tutta la storia di un uomo. Il suo “carattere” e la sua “personalità”. Tutto il suo percorso di vita, gioie, vittorie, perdite e sconfitte. Senza la fatica e il dolore non c’è l’individuo; c’è il calcolo combinatorio.
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Certo è che se esiste una traduzione concreta di tutto questo, l’ha data Joel Mokyr. il grande storico dell’economia. Ed è riuscito nella traduzione trovando il tenore psichico perfettamente corrispondente, in ambito sociale, all’algofobia: la Nostalgia. La malattia culturale dell’Europa è proprio questa. Il compianto “mondo dorato” che fu. L’autore di A Culture of Growth, 2016, ha sottolineato in diversi passaggi della sua produzione come nello strappo epocale del Rinascimento vada ricercato il punto di origine del concetto economico di progresso. Intorno alla fine del 1400, gli europei hanno letteralmente “svelato” il mondo. Hanno scoperto che gli antichi potevano dire moltissimo, ma anche che moltissimo mancava e che moltissimo di quel che sapevano era sbagliato. L’epoca delle grandi esplorazioni corrisponde all’esaurimento della nostalgia per l’Arcadia e alla fioritura del nuovo, diverso, dell’utopia. A quel punto, secondo Mokyr, può nascere la moderna economia. Nella capacità di imparare dagli Altri, che siano l’Impero cinese o una tribù andina. Il problema è che ora, nel nostro tempo, l’utopia sembra naufragata: è piuttosto soverchiata dalla distopia. E più le visioni al futuro sono oscure, più il passato – magari ridipinto con i toni della demagogia – si fa attraente. Per stare al mondo del cinema, si pensi a come negli anni la malattia del reboot si sia incancrenita e ramificata.
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I dolori e le sofferenze del passato sono in effetti conclusi, finiti, incapsulati. Così maneggevoli che il Racconto giusto può trasfigurarli e annullarli.
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La lunga onda reazionaria che attraversa l’occidente politico è, senza mezzi termini, nostalgia. Paura del nuovo, o meglio paura del dolore che è necessario per ottenere il nuovo. Ed ecco la perdita dei primati economici. L’incapacità di incrinare le nostre convinzioni, senza ammettere che per esempio che la Cina o l’India siano molto più avanzate di noi in diversi settori, ci sta impedendo di imparare da loro? L’incapacità di aprire e riformulare i concetti di individuo, genere, famiglia, possono indebolire la nostra primazia democratica? La risposta è si. Tra tutti, l’Italia “nostalgica” è quel Paese in cui i tentativi della politica di legittimare e sbiancare un macchiato “mondo antico”, e il dibattito conseguente arenato sulla “fascisticità” o meno dei provvedimenti, condannano la nazione a un corto circuito; avulsione dai problemi reali della gente, dell’Unione Europea e del mondo. Stagnazione.
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In tutto ciò, il soggetto di Deadpool–Minchia di mare è un davvero singolare punto di convergenza di tutte le istanze. Primo. A livello più esterno – più immediato e consumabile – espressione piena della nostalgia narrativa, poiché le sue storie provengono da un trentennio abbondante di carta inchiostrata. Secondo. Più in profondità, annoda, in chiave ironica e isterica, patologia e cura. Accoglie senza sconti ogni forma del dolore, e poi lo deride e lo neutralizza. Si nutre dell’impasse nostalgica e, contemporaneamente, ne incarna la fantasiosa via d’uscita. Ciò lo rende popolarissimo. Perché, va notato, il mondo sociale “sente”, anche se per vie indirette, il soma provocato dall’anestesia permanente.
Guardiamo ai femminicidi, in particolare i più recenti fatti di cronaca, e scopriamo quanta parte abbia nei moventi la paura del dolore della disfatta, perdita, vergogna, dell’esser lasciati indietro. O si guardi al recentissimo, al caso della pugile Carini e a quanto la banale realtà della sconfitta sia stata sommersa di polemiche, idealismi e sproloqui d’ogni genere.
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Allora, che si fa? Si ritorna a accogliere il dolore? Come facevano i nostri nonni e i nonni dei nostri nonni?
Ma questa sarebbe di nuovo nostalgia. In effetti, tanto Byung-Chul Han che Mokyr indicano come vero spiraglio l’Alterità. Inclusione, apertura, critica; imparare a imparare dagli Altri. Un po’ il contrario di quel Disegno di Legge che cerca di “tecnicizzare” gli studi liceali in Italia. È faticoso? Si. Ma se non si è disposti a faticare, tanto vale starsene sul bagnasciuga, immobili, nella speranza di trovare una Minchia di mare.
Sebastiano Bertini
Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.
Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340