Le parole contano

Claudia Marchetti

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Le parole contano

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venerdì 30 Maggio 2025 - 07:00

C’è un aspetto fondamentale che troppo spesso sfugge, anche a chi fa informazione: le parole che scegliamo per raccontare un fatto, contano. Eccome. Possono educare o deviare, e quando si parla di femminicidi e di violenza contro le donne, il modo in cui vengono veicolate certe notizie diventa essenziale. Perché può fare la differenza tra la comprensione profonda di un dramma sociale e la sua banalizzazione. In questi giorni la morte di Martina Carbonaro, una ragazza di 14 anni uccisa dall’ex fidanzato di 18, è stata raccontata da una testata online con queste parole: “Giocava a fare la grande”. Un’espressione che sposta l’attenzione dalla violenza dell’omicidio alla presunta leggerezza della vittima. Non puntiamo il dito contro un singolo giornale: questo è un problema sistemico.

Troppo spesso, nel raccontare il fenomeno, il linguaggio tende inconsapevolmente – ma proprio per questo ancora più pericolosamente – a giustificare l’aggressore, a cercare motivazioni, a insinuare colpe della vittima. Frasi come “L’ha uccisa perché l’amava troppo”, “Non poteva vivere senza di lei”, oppure “Era sotto effetto di droghe e alcol quindi…”, “Portava un vestito provocante…”, sono ancora tristemente ricorrenti. Ma cosa comunicano davvero? Che c’è una ragione, una causa scatenante, quasi un’attenuante. Come se ci fosse qualcosa che possa, in qualche modo, spiegare se non giustificare l’omicidio di una donna. No. Non c’è e non ci sarà mai una giustificazione per togliere la vita ad una compagna, una moglie, una ex. Il problema è strutturale e culturale. Le donne vengono uccise perché osano interrompere relazioni tossiche, perché cercano libertà, perché semplicemente rivendicano il diritto di essere se stesse. E mentre ogni giorno i centri antiviolenza continuano a fare un lavoro a volte estenuante e molte donne trovano il coraggio di denunciare, esiste un sommerso spaventoso. Una violenza che si consuma tra le mura domestiche, nel silenzio, nella vergogna, nella paura.

E ciò che inquieta ancora di più è l’abbassarsi dell’età dei soggetti coinvolti in queste tragedie. Le vittime sono sempre più giovani e lo sono anche i loro carnefici. Questo dovrebbe scuoterci profondamente: perché significa che il problema non è solo nelle generazioni passate, ma si sta radicando anche in quelle future. In tutto questo, il linguaggio ha un ruolo centrale, le parole possono alimentare stereotipi ma possono anche essere strumenti di cambiamento. Serve più consapevolezza, anche e soprattutto nei media, su come si raccontano certi fatti. Perché ogni parola può essere un mattone in più o in meno nella costruzione di una cultura del rispetto. Il machismo e il maschilismo non hanno volto unico, né appartengono solo agli uomini. Sono un’eredità collettiva, sedimentata nei secoli e oggi più che mai è necessario riconoscerla per combatterla. Non basta indignarsi a posteriori. Bisogna educare, a partire dal linguaggio. 

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