Disumanesimo. Il senso di colpa degli Ambientalisti

Sebastiano Bertini

Lo scavalco

Disumanesimo. Il senso di colpa degli Ambientalisti

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martedì 24 Settembre 2024 - 17:30

Strano a dirsi, l’età umana dell’Informazione, dell’esplosione relazionale, dell’esplosione demografica mondiale, tende a una rappresentazione di sé decisamente disumana.

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Inizio da un articolo, di questo giugno, apparso su Nature Ecology and Evolution già da molti commentato. African elephants address one another with individually specific name-like calls.

Tradotto: gli elefanti si chiamano con nomi propri.

Non solo, cioè, per i pachidermi vale il principio di individuazione, ma anche tra di essi agisce una sorta di convenzione sociale articolata da un linguaggio.

Il modo in cui la gran parte dei commentatore ha reagito sostanzialmente è questo: sappiamo una cosa nuova sugli elefanti, e soprattutto sappiamo che dobbiamo “togliere qualcosa” all’eccezionalità del “primate parlante”: l’uomo, zoon logon.

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Ormai è entrata anche nella vulgata una certa percezione della “sopravvalutazione” storica dell’uomo.

Abbiamo capito che gran parte di quello che riteniamo peculiarmente umano è già presente – seppur in schegge e atomi – in Natura.

Inoltre il pensiero ecologico e decenni di studi sull’Antropocene hanno ben chiarito come, tra Homo e Natura, il peggiore dei due sia il primo.

La grande cavalcata civilizzatrice dell’addomesticazione razionale del mondo naturale sta mostrando i suoi effetti deteriori. È spesso comunicata come errore e fraintendimento.

E l’uomo assume tutte le caratteristiche della “malattia del mondo”.

Prolifera, senza sosta, ai danni dell’ecosistema. Produce una febbre ambientale che rovina il globo.

Qualsiasi ipotesi sulla sua estinzione ha come esito il ritorno ad un felice equilibrio.

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Ne nasce una civiltà del “Senso di colpa”.

Ancor più, un’umanità di condannati: sono oramai infinite le rappresentazioni della “forca” della storia.

Davanti a noi l’apocalisse climatica sembra assumere, giorno dopo giorno, estate dopo estate, rilevamento dopo rilevamento, sempre più concretezza.

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Tal condizione psico-sociale non è, a dir il vero, nuova in senso assoluto.

Il Millenarismo medievale aveva già fatto ampiamente sperimentare la paura della distruzione epocale.

Certo, nella nostra attualità non rimane praticamente nulla dell’escatologia cristiana.

Ora è il culto altro, quello della Scienza, a aver la responsabilità sia del Consumo cieco della terra sia del disvelamento di tale cecità.

Inoltre, proprio la dimensione stocastica, predittiva, del calcolo degli effetti delle nostre azioni sul domani caratterizza ulteriormente l’attuale Funzione Apocalisse.

Il futuro, grazie alla prevedibilità garantita dal calcolo, ha una sorta di capacità di “retro-versione” (ne avevo già scritto indicandolo come una sorta di paradosso di Terminator).

Cioè è così “sicuramente presente” da ribaltarsi sul nostro presente, imponendo azioni, riflessioni, e infine giudizi di colpa.

Tale concettualizzazione dell’asse presente-futuro (a dire il vero fuori fuoco anche in autori come Torrengo e Iaquinto) è di per sé storicamente inedita. Effettivamente diversa anche dalla “cultura della colpa” più prossima a noi: quella della Germania post nazista.

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Si osservi questo. Terminata l’esperienza del Nazismo, il mondo civile tedesco si è trovato nella impellentissima necessità di ricostruire le basi sociali.

La strada intrapresa è stata quella di condannare moralmente l’intera comunità, la “gente di Germania”, per “aver permesso” il Terzo Reich. Condanna per indolenza, cecità, pigrizia, opportunismo…

Condanna, si noti, che nella retorica di tutta l’area cristiano-socialista e progressista, non prevede “assolvimento” della colpa. L’abominio hitleriano immane come un assoluto, imponendo un’agenda civile e politica di compensazione.

Il dispositivo è stato funzionale. Ha cacciato davanti agli occhi di tutto l’Occidente, e dei tedeschi stessi, l’immagine di un Volk che “non si assolve mai”: rigoroso, integerrimo, democraticamente laboriosissimo, esente da suggestioni, simboli e mitologie.

Certo, ora sappiamo che sotto quell’immagine il fuoco ha covato: dal Dieselgate del 2015 alle recenti elezioni nell’Est del Paese, molto è emerso.

Ma questo non ci importa.

Ci interessa provare se il dispositivo sociale della “colpa/espiazione senza fine” tedesco sia in qualche modo esportabile a tutto l’Occidente eco-apocalittico.

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È evidente che la peculiare condizione di futuro “retro-verso” che viviamo non ci fa sentire come problematica la questione che la disfatta non sia già accaduta, ma di là da venire.

Tale assetto però sembra sterilizzare i tentativi di “espiazione”.

Nel senso che, al netto di una retorica ecologista oramai radicata, tutte le azioni concrete vengono smussate in ragione proprio del giudizio espresso da tale retorica.

Il gesto umano è deleterio.

Paralisi.

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Su queste ragioni “elevate” si innestano poi tutti i criteri pratici di conduzione della nostra società individualista.

Le colpe di tutti, in fondo, non sono di nessuno.

E le pene date dalle colpe di tutti vanno bene, basta che non “tocchino me”.

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Se vogliamo, la sovrastruttura che meglio articola e organizza questo sottofondo psichico è quello che potremmo chiamare liberismo esistenziale.

Lo ha scritto chiarissimamente, anni fa, Harvey: siamo finiti per assumere liberismo economico – il suo principio cardine del Consumo – come paradigma generale.

Abbiamo ricopiato le logiche dell’Utile nelle pratiche culturali e nelle relazioni sociali.

Così in Occidente si scrive tantissimo e si legge pochissimo, le produzioni culturali sono soggiogate dai numeri, il cinema è prono alle piattaforme di consumo-compulsivo-di-narrazioni, le scienze umane (o se vogliano le “discipline umanistiche”, eredi delle Humanae Litterae che hanno dato la forma alla Modernità) hanno perso il loro potere di soccorso all’elaborazione psicologica della realtà e le relazioni, anche intime, sono regolate dall’utilità.

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È chiaro che nel mondo pensato “al Consumo”, l’espiazione c’è solo quando produce ritorno.

E dato che in questo caso l’incasso sarebbe futuro – probabilmente perciò non godibile – moltissimi si sottraggono concretamente all’investimento.

D’altra parte, è chiaro: l’eco-pessimismo contempla un futuro di disfacimento, che è tutt’altro che “economicamente” (anche in senso etimologico) attraente.

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Perciò ce ne stiamo “condannati”, stupidi, davanti alle statistiche dei climatologi.

Anche perché una delle componenti “automatiche” del liberismo esistenziale è anche la retorica della Dignità.

Arma amata dal mondo progressista, la “dignità a tutti i costi e per tutti” è lo scudo posto dalle sinistre alla concretizzazione – costosissima sotto ogni aspetto – del discorso dell’espiazione (magari con il nome di Decrescita felice), quasi sempre adottata proprio dagli stessi schieramenti ideologici.

Ciò chiaramente contribuisce a far “girare in tondo” il soggetto: si continua a rimbalzare tra la condanna e la preservazione, tra la colpevole Disumanizzazione apocalittica e la “religione” dei Diritti sociali universalizzati, che per esser esercitata nei suoi pieni crismi ributta ancora verso la modernità eco-distruttiva.

Così, semplicemente, stiamo in attesa.

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Poiché, comunque, c’è attesa di una via d’uscita. Ed è prodotta proprio internamente al complesso sociale che è oggetto di condanna.

Il combinato disposto di razionalità scientifica e razionalità socio-economica hanno partorito l’attesa di un messia tecnologico che ci salvi tutti.

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Già perché va detto che, nel senso comune, se la Scienza è diventato il contenitore generale di tutte le interpretazioni del mondo, la Tecnologia ne è divenuto l’angelo evangelizzatore.

Le enormi aspettative che stiamo caricando sull’Intelligenza Artificiale ne sono la prova lampante.

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Auto elettriche, pompe di calore, pale eoliche, fusioni nucleari, sono soprattutto figure – anticipazioni, precognizioni – di quella aurorale super-intelligenza Disumana che dovrebbe rigenerare l’umanità.

A spiegarlo con chiarezza è ancora – testimonianza di meravigliosa potenza – il soggetto di Terminator. Questa volta però in mano a un occidentale “di margine”: il giapponese Masashi Kudō – in tandem con Mattson Tomlin.

Questo Terminator Zero, che è un anime di una manciata di puntate, coglie immediatamente la forma tautologica, circolare, del nostro “stare-rispetto-al-futuro” e mette in primo piano la dimensione cultuale, messianica, che sta al centro di questo vortice.

È la storia della nascita – dal futuro verso il passato per mezzo di uno dei personaggi principali, viaggiatore del tempo – di una nuova super AI per sconfiggere in partenza l’AI originale – Skynet – ideata da Cameron nel film del 1984.

Super intelligenze che, appunto per circolarità, giungono sostanzialmente a conclusioni quasi identiche sull’umanità e sulla sua necessaria sorte di estinzione.

E in questo movimento tondo, si moltiplicano le rifrazioni trinitarie – tre bambini, tre varianti della macchina, triplicazione interna della macchina stessa – ad indicare l’aspirazione spirituale verso una nuova escatologia. Verso gli esiti del Giudizio macchinico e verso un nuovo oltre-mondo.

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Non parlo certo di un tentativo di rifondazione teologica a opera di Kudō e Tomlin, ma di una grande capacità cogliere l’impasse in cui sta piantato il nostro rapporto con il futuro.

Non importa, ai più, che antropologia, filosofia e anche neurologia, da tempo convergano su una differenziazione ontologica delle intelligenze “naturali” e “artificiali”.

Differenza che rende le prime non sostituibili dalle seconde.

Importa invece, sempre ai più, che la “novità disvelante” agisca con potere sostitutivo nei confronti dell’individuo. Che lo “salvi” a prescindere da lui: la “sindrome del condannato” qui si configura nella paralizzante idea che l’atto umano sia, in fondo, sempre eco-dannoso.

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Puntualizzo sulla differenza di cui sopra.

Le intelligenze “naturali” sono quelle hanno base in un corpo.

Dalla fisiologia e dall’ergonomia si sono sviluppate le nostre “categorie del mondo”: in comparazione con le forme del corpo nasce la misurazione dello spazio (nel sistema anglosassone non rimangono ancora feets, inches…? Tutte eredità del dáktylos, il “dito” di circa 1,93 cm, dei greci) e in comparazione con la caducità del corpo (che inizia e cerca di permanere) nasce il senso del tempo.

Nella peculiare apprensione verso mortalità del corpo sta la scintilla che determina l’Homo: come in ogni animale, la lotta contro la morte ha provocato l’intelligenza sociale e la gara riproduttiva; in più nell’uomo la super articolazione del linguaggio ha permesso l’invenzione di opere, scritti, lavorazioni materiali, strutture istituzionali, che sopravvivano al singolo.

Le capacità adattive e exattive umane, la nostra capacità di abitare e plasmare lo spazio, la nostra capacità di auto-addestrarci al mondo e alla società, sono il contrappunto di rinforzo al quel principale obiettivo.

Il corpo della macchina ha tutt’altre qualità. Può essere acceso e spento infinite volte: non ha nessuna morte da superare.

Inoltre il corpo della macchina non è determinato. Si può smontare, rimontare, implementare…

Quand’anche tale macchina avesse capacità evolutive, svilupperebbe un’intelligenza completamente diversa da quella umana: forse incredibilmente adattiva, ma sicuramente orientata verso il migliore degli equilibri finali: la stasi.

Il paradiso di una AI sarebbe l’estasi immobile dell’efficienza totale.

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Perciò l’aspettativa messianica che abita il nostro rapporto con la tecnologia è, effettivamente, fuori fuoco.

Un’AI definitivamente superiore non “penserebbe” con le categorie dell’Homo Sapiens.

Non sarebbe nemmeno “creativa” nel modo in cui noi intendiamo.

La “creatività artificiale” di cui spesso ci stupiamo è esito di una imitazione della creatività umana.

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L’impressione che se ne ricava odora di tautologia: si chiede alla modernizzazione di essere tanto malattia quanto farmaco.

Il movimento però, a ben vedere, in questo momento storico, è dato da linee convergenti ma asintotiche. Non si toccheranno mai.

Ciò mette all’angolo qualsiasi movimento ambientalista e scientista.

La corsa della scienza a riparare ai danni provocati da sé stessa non potrà mai arrivare a “riparare” la ragione prima di questi danni: l’uomo.

Poiché l’Homo è tale da quando ha imparato a perturbare il mondo per il suo più importante scopo: forzare i limiti – prima la morte – imposti dalla Natura.

Il Green Party e Terminator dovrebbero forse imparare a guardarsi.

Forse ora non ci riescono perché facce opposte della stessa medaglia del Disumanesimo.

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

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