Uccidere una Donna; Patologie della Densità e Modelli sociali

Sebastiano Bertini

Lo scavalco

Uccidere una Donna; Patologie della Densità e Modelli sociali

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martedì 13 Giugno 2023 - 13:22

Nella maggior parte dei casi, i femminicidi sono spiegati incrociando due assi orientanti: lo scandaglio psicologico e, perpendicolarmente, l’analisi del contesto sociale.

Un individuo e il suo mondo, in sostanza.

Ne esce un focus ristretto, dotato di una certa capacità di vivisezione, buono a inquadrare i fatti, soprattutto in termini giudiziari.

La generalizzazione successiva prevede poi, di prassi, l’assegnazione dell’etichetta di Mostro e il richiamo alla prevenzione, attribuita sempre alla Scuola.

La Scuola deve educare alla repulsione per la violenza sulle donne.

Bene. Sacrosanto. E infatti la Scuola lo fa, da anni.

Eppure, i femminicidi non calano. Anzi.

Nelle scuole vengono costantemente offerte attività di approfondimento e riflessione. Spesso queste sono orientate, esattamente come si fa nel racconto televisivo, anche post-giudiziario, al modello “testimonianza” – schema caro alla cultura cattolica – a forte impatto emotivo e all’immersione nel “piccolo mondo” delittuoso.

Gli studenti – come l’opinione pubblica – sono evidentemente partecipi e colpiti.

Eppure, tra 2019 e 2022 i femminicidi si danno con un balzo positivo del 12%.

E quindi? Cosa non torna?

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Potrebbe mancare una sistematica capacità di contestualizzare i “piccoli mondi” nel campo lungo della società occidentale?

È una strada.

Certo, una proiezione di profondità è operata in maniera regolare, dalla Scuola e da tutti gli attori in campo: quella storica.

Decisamente meno regolare e sicura è invece quella che si muove sull’asse longitudinale, che opera comparando e sintetizzando l’attualità, che si muove trasversalmente nell’hic et nunc delle dinamiche sociali e culturali.

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Una parola, per chiarire, sul tracciante storico.

Il cammino dei diritti nel secondo ‘900 è stato importantissimo e, in senso storico, velocissimo.

Tanto veloce, rispetto alla storia dell’Occidente, da sfalsare la riflessione culturale/sociologica/politica rispetto alla “digestione” condivisa.

Prova di questo sfalsamento è la sopravvivenza di stereotipi sessisti, anche quando seppelliti dalla retorica generale.

L’indagine ISTAT del 2018 sottolineava come, ancora per il 32,5% della popolazione italiana, “per l’uomo, più che per la donna, è molto importante avere successo nel lavoro”; per il 31,5% “gli uomini sono meno adatti a occuparsi delle faccende domestiche”; un segmento di poco inferiore al 10% segnalava di credere che “le donne possono provocare la violenza sessuale con il loro modo di vestire”, indicando cioè responsabilità oggettive.

Circa il 30% dei giovani tra 18 e 29 anni riteneva positivo il controllo del partner.

In linea, quindi, con questo sfalsamento tra giurisprudenza e opinione sociale la violenza di genere viene spiegata ricorrendo alle categorie dell’oggettivizzazione della donna, della proprietà che l’uomo esercita sulla donna, della superiorità da ribadirsi in opposizione all’emancipazione femminile.

In pratica, il “maschio violento” si dimostra lento e impreparato di fronte al cambiamento sociale, si stacca con riluttanza dalla memoria storica e reagisce al ridimensionamento sociale con forza distruttrice.

Si direbbe una patologia “storica”.

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Intercettiamo allora l’altro tracciante: quello delle dinamiche sociali trasversali alla contemporaneità.

Inizierei da un dettaglio.

Il femminicida del recentissimo caso di Senago ha dichiarato: “Ho ucciso Giulia perché ero stressato”.

Ammissione, certo, preliminare – di superficie – ma evidentemente spia di una auto-centratura patologica.

Mi spiego: dai dettagli che stanno via via emergendo pare abbastanza chiaro come l’assassino vivesse il sistema delle relazioni sociali in modo radicalmente autoreferenziale, al punto di considerare – irrealisticamente – tutte le connessioni alla sua sfera individuale come strumentali e, perciò, amputabili.

Stress diviene la causale generica. Motore interiore. Autopoiesi.

Proiettiamo sulla larga scala.

Il problema del conflitto fra “piccolo mondo” e “pluralità reticolare” è proprio di tutte le società, direbbe Sloterdijk, “molto dense”.

Il mondo globalizzato è, come segnalato da tutti i principali e oramai lettissimi studiosi canonici (da Sassen a Bauman, da Latour a Jameson a Harvey) il mondo intensificazione della densità sociale. Ci stiamo addosso, ci “tocchiamo” di continuo; tutti competono con tutti; tanto che tutto l’apparato giurisprudenziale d’Occidente è ad oggi fortissimamente orientato a “contenere gli effetti delle azioni” dell’uno su altri, più che a indurre comportamenti.

Certo, non è solo questione di aumento demografico, ma soprattutto di aumento esponenziale dei contatti fra gli individui.

Nell’età delle tecnologie digitali, i dispositivi always connected portano l’intera Rete dentro lo spazio domestico e, contemporaneamente, rendono lo spazio domestico parte attiva – emettitrice di dati – della Rete.

Nel mondo globalizzato tutto è vicino. Così vicino da ingombrare il campo visivo.

Collasso della distanza critica ad alto rischio.

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Possono emergere, da qui, forme di claustrofobia sociale?

Per molti tale patologia compare nella veste, ampissimamente denunciata, dell’utilitarismo sociale.

Non è difficile immaginare, in effetti, come il soggetto occidentale, già ampiamente promosso a nerbo inaggirabile dall’intera corsa della modernità, trovandosi in una situazione di semi-cecità, di abbaglio, “stress” da contatto, possa rispondere alle difficoltà della competizione socio-economica con la chiusura, con il rintanamento nel guscio individuale.

Il soggetto ripiegato vede sé stesso riflesso in ogni cosa. Finalizza l’esperienza del mondo alla propria sfera.

Da ciò l’altro può essere degradato da soggetto integro a strumento, e via per questa china addirittura a ostacolo, a corpo estraneo da espellere.

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Ecco allora che si può intravedere l’incrocio tra il tracciante “storico” e quello “socio-culturale”: nel gesto di espulsione violenta dalla propria sfera, nel gesto di uccisione della compagna incinta, convergono l’atomizzazione sociale e l’inadeguatezza “storica”.

L’assassino di Senago non sa collocarsi nel mondo se non come atomo-monade e non sa gestire la competizione sociale: la compagna è un attore sociale autonomo e attivo, capace di concorrere e, soprattutto, di penetrare la sfera individuale del Mostro e di impedirne, con la sua gravidanza, l’assolutezza.

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Perciò ogni femminicidio è anche patologia di tutto il sistema sociale.

E a tale vastità, come si risponde? In genere, con i modelli sociali.

La Chiesa Cattolica, con la sua proposta conservatrice di ritorno al modello della famiglia tradizionale – intesa nella sua staticità sia convenzionale che sacrale – è in Italia il più ortodosso emettitore di strutture-argine.

Concettualizza – e qui uso le parole della filosofia e della sociologia – una sfera sociale minima “a tre”. La rende cioè plurale e, contestualmente, impedisce ogni auto-centratura, poiché pretende che il centro sia ultramondano.

In senso più dottrinale, però, tratta più che di una sfera di un “campo tripartito”, preordinato dalla Divinità e dalle autorità ecclesiastiche.

Trattasi quindi di struttura “rigida” e costitutivamente “gerarchica”, sedimentata nell’Occidente da una durata lunghissima, all’interno della quale i precetti morali agirebbero da “regolatori” generali.

Ciò le fa assumere, agli occhi di molti, un’aura “difensiva” nei confronti della densità sociale e delle sue patologie, tra le quali anche il femminicidio.

Peccato che le forme patriarcali tradizionali – ad oggi, purtroppo, da alcuni rievocate con nostalgia – non abbiano mai operato “moralmente” e sistematicamente in difesa della donna e della sua emancipazione.

Ma, a prescindere dal patriarcato, in questo modello si annida un altro e ben più ampio rischio di travisamento: se i diritti di una donna vengono sublimati dai diritti di una famiglia, si gira intorno al problema.

I diritti di una donna devono valere per l’individuo in sé e per sé, nella sua pienezza di soggetto a tutto tondo. Dentro o fuori dalla famiglia che sia.

E in tal senso le istituzioni laiche, nazionali e internazionali, si dimostrano spesso ancora acerbe.

L’obbedienza all’economia e al mercato, le dinamiche politiche e in generale del potere, finiscono per impedire di pensare a forme di ricomposizione del tessuto sociale: ne sono prova la sempre in diminuendo partecipazione politica in Italia, soprattutto delle donne (solo il 2,8%); la grande difficoltà nell’immaginare e socializzare “futuri condivisi”, progetti a ampio spettro – se vogliamo, nazionali – di recupero e resilienza; la grande difficoltà a spostare i dovuti investimenti sulla Scuola e sui giovani.

Nello stesso tempo vi sono enormi difficoltà nel rendere sistemiche le forme di valorizzazione della donna che non rischino di sfociare in paternalismo.

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Qualcuno come Luciano Gallino ha scritto che nel mondo neoliberale qualsiasi forma di egualitarismo è surclassato dalla «razionalità economica», estesa a «ogni dimensione dell’esistenza».

Forse è questo il punto?

Se l’Unione Europea scrive che vuole «un’Europa in cui donne e uomini siano liberi di seguire il percorso che hanno scelto nella vita, dove abbiano pari opportunità di prosperare e dove possano ugualmente partecipare e guidare la nostra società europea» suggerisce solo belle speranze?

Crouch, più di vent’anni fa, diceva che l’Unione Europea era nata nel tentativo di tenere insieme le divergenti istanze capitalismo e dell’uguaglianza democratica.

Osservando come solo tra 2007 e 2010 il deficit pubblico si sia decuplicato per il salvataggio sistematico degli istituti finanziari, e come tale condizione abbia definitivamente falciato lo sviluppo di un modello sociale europeo trasversale – ugualitario, capace di costruire una vera “cultura della parità di genere” – appare chiaramente quale delle due istanze di Crouch ha vinto.

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

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