Aldo Moro Fascista? Continuità e i “non-antifascisti” all’italiana

Sebastiano Bertini

Lo scavalco

Aldo Moro Fascista? Continuità e i “non-antifascisti” all’italiana

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sabato 13 Maggio 2023 - 12:21

Il nostro Presidente della Repubblica, questo 25 aprile, ha perentoriamente sottolineato che “La Costituzione è figlia della lotta partigiana”.

Affermazione forte, chiara, esplicitamente calata nella temperie politica di questo momento.

Certo, forse così calata nel qui e ora da agitare un poco le acque del dibattito ideologico e storico italiano.

C’è stato anche chi, pur nell’impossibilità di negare la “post-fascisticità” dell’Assemblea costituente, ha voluto vedere una sorta di “curvatura” della storia nel discorso di Mattarella.

Ci sono stati distinguo e puntigliosità di lana caprina, vagamente orientate a ridimensionare il rapporto fra la nostra Repubblica e la Resistenza.

Mi ha colpito lo storico Franco Cardini – che ha nella sua storia politica, si veda bene, anche l’MSI – dirsi dichiaratamente reticente ad utilizzare il termine “antifascismo” e rievocare, tra le sue argomentazioni, anche il passato “fascista” di Aldo Moro.

Ora, da questo passato “macchiato” mi pare interessante ripartire, anche nell’ottica di comprendere come questo possa dare piè d’appoggio, sostegno, spunto, ai nostrani “quasi-circa-antifascismi” (se non addirittura “anti-antifascismi”).

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Mi si conceda un preambolo.

Se c’è un demerito clamoroso nella “comunicazione di massa” – soprattutto televisiva, ma non solo – in Italia, è quello di sopportare malissimo le voci laiche, anti-ideologiche e fuori schieramento.

Uomini e eventi, nella storia patria, a tratti appaiono fustellati nel granito, fissati in silhouettes inamovibili.

Anche per questo è stato da noi sempre così difficile portare chiarezza sull’epoca di transizione 1943 – 1948: l’arco di anni che congiunge la fine del Fascismo con l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana.

Dai libri di storia, sembra sempre più o meno così: gli italiani sono sempre stati, sotto sotto, anti-fascisti. “Sotto sotto” perché, come vuole la classica stigmatizzazione, educati alla manzoniana rassegnazione giansenista e alla pavidità contadina. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, infatti, lo “spirito del fascismo” pare atomizzarsi, trascinato e dissolto dal vento nuovo della Repubblica a Stelle e Strisce, guerriera e insieme civilizzatrice.

Diffusa a ciclostile questa versione – e questa retorica – per tutta la penisola, si sono lasciati a specialisti e appassionati i dettagli intermedi, i passaggi-membrana, permettendo di sorvolare altissimi sulle continuità fra la prima e la seconda età, così come sui conniventi, sugli ex, sugli abiuranti e sui pentiti, su tutti coloro che pure avevano molto guadagnato dal Regime e che dopo Piazzale Loreto hanno finto di non aver mai avuto nulla a che fare con mascelloni, olio di ricino e camicie nere.

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Aldo Moro. Anche se viene ricordato quasi solo per gli eventi che hanno portato la fine della sua vita, ha avuto una storia piuttosto lunga.

E la prima parte della sua vita ci racconta proprio di un transito attraverso il Fascismo.

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Si veda bene che la questione non è nuova. Perfino l’MSI, entrante la prima età “morotea” della DC, con l’intento di screditare, di indicare in Moro un traditore del fascismo, pubblicò un libello intitolato Moro: uno e due.

Nel suddetto opuscolo, si arriva a affermare che durante i Littoriali di Napoli, 1937, Nicolino Galdo, futuro dirigente dello stesso MSI, fosse stato surclassato in “fascisticità” dallo stesso Moro.

Si parta però da un dato biografico accertato. Aldo Moro: Tessera del Partito Nazionale Fascista n° 1424038 dell’anno XVII. Regolarmente iscritto al GUF e ala Fascio di Combattimento di Bari.

Sono dati che si evincono dalla pratica di domanda che Moro inoltrò presso La Sapienza per divenire assistente di Diritto Penale.

Fin qui, nulla di cui stupirsi. Quanti durante il Fascismo si sono “piegati”?

I dettagli, però, proiettano una luce diversa.

A tenere quella cattedra era il fratello di nientepopodimeno che Alfredo Rocco, il fascista, quello del Codice penale.

Ed è proprio un “pizzino” autografo di tal Arturo, datato 9 gennaio 1940, ad aprire effettivamente la carriera universitaria di Moro.

Esposizione personale dettata certamente dal curriculum indubitabile del giovane: figlio di ispettore scolastico ben collocato, dal gerarca Bottai, alla supervisione delle aree rurali, Aldo si distingue già alla fine degli anni ’30 anche per riflessioni come questa:

In Regime Fascista si parla quindi a buon diritto di libertà, che non sarà naturalmente quella socialmente dannosa del liberalismo, ma sarà soprattutto [sic] senso di responsabilità, sicché potrà atteggiarsi come il motivo di una autolimitazione dell’individuo, che permetta la coesistenza della sua autonomia con altre autonomie aventi eguali diritti. Su questo fondamento spirituale si fonda la organizzazione collettiva fascista, che si riassume in una formula di armonia, di coordinamento, di collaborazione.

Per trasparenza, testo citato da: Moro Aldo, Dottrina del Fascismo, in Aldo Moro, Edizione Nazionale delle Opere di Aldo Moro, Sezione 1, Scritti e Discorsi, Vol. 1, Gli anni giovanili (1932-1946), a cura di Gaetano Crociata e Paolo Trionfini, edizione e nota storico-critica di Tiziano Torresi, Bologna, Università di Bologna, 2021.

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E quindi? Cosa si vuol dimostrare?

Intanto un dato: nella nostra Costituente c’era almeno uno di quei cattolici solidissimamente formati dentro il mondo fascista.

E se ce ne fossero stati due?

Se seguissimo la parabola di Amintore Fanfani, colui che in sostanza scrisse l’Articolo 1 della nostra Costituzione, troveremmo un percorso assolutamente parallelo a quello di Moro.

Fanfani fu, per l’appunto, pure professore della Scuola di mistica fascista e scrisse sulla rivista emanazione di questa: Dottrina fascista.

Fanfani, firmò il Manifesto della razza.

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C’è qualcosa che stride? Poco digeribile?

C’è anche, però, il dato storico: i due di sopra cambiarono effettivamente idea in tempi non sospetti, prima del ’43, a casa di Enrico Flack, con De Gasperi, Dossetti e Andreotti.

Certo, che la nascita della DC rappresenti una soglia “repubblicana” è indubbio. Che sia una soglia di discontinuità in senso radicale, lo è meno.

D’altra parte, va anche sottolineato che a soffocare veramente le opzioni di discontinuità fu un altro, importantissimo e diverso, uomo politico: Togliatti, alla firma dell’amnistia.

Perché in fondo lì, in quel momento di disperata ricerca di pace politica e sociale, ci fu la rinuncia totale ad un Processo di Norimberga italiano.

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Nei due anni precedenti a quel Decreto del giugno 1946, si noti, nemmeno l’epurazione della Magistratura fascista riuscì: continuarono la loro carriera anche i magistrati di più alta carica, come quelli del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato del Tribunale della Razza.

Le commissioni speciali dedicate all’espulsione dei fascisti dalla macchina statale miseramente fallirono, con l’allontanamento – leggasi “pensionamento” – del solo 1% dei casi in esame.

Il nobile intento togliattiano di distinguere i colpevoli di reati gravi da chi fu solo parte dell’apparato fu lontano dalla realizzazione.

Esiti. 220.000 scarcerati. Compresi Repubblichini. De Gasperi riformula il Governo e dà il ben servito a Togliatti.

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Si aggiunga un dettaglio.

Il cuore giuridico del processo fu l’introduzione, nella giustizia bellica, del reato di collaborazionismo.

Reato che permetteva di esonerare gli italiani da responsabilità dirette. Ne faceva burattini in mano ai tedeschi.

Con questo, all’Italia sconvolta e ancora divisa veniva offerto uno spesso strato di ovatta con cui coprire i fatti, le responsabilità e, soprattutto, la Memoria: in Italia, tutto continua, come un caldo flusso lavico senza direzione.

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È forse allora su questo sfondo che vanno inserite tessere come quelle del Mattarella del 25 aprile e dei vari “non-antifascisti”.

Sfondo dato da un’Italia che non ha imparato davvero a fare i conti con sé stessa.

Sfondo che continua a mantenere in vita virus storici che dovrebbero essere oramai eradicati e invece riemergono, capaci di proliferare nelle zone d’ombra come pure in pieno sole, (come nella revisione dei fatti di via Rasella).

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Ciò che mi preoccupa è questo: che dichiarazioni come quelle di Mattarella non vengano intese nel loro valore storico, e finiscano per esser percepite come slogan.

Gli italiani conoscono entro quale campo di significati quelle parole risuonano in pienezza?

Sappiamo quanto del fascismo è rimasto in corpo alla Repubblica?

Ho paura di sentire molti no.

Forse dovrebbe pensarci la Scuola? Certo, nelle condizioni in cui è oggi le su capacità non paiono all’altezza.

Sebastiano Bertini

Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.

Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340

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