Steven Mithen ha pubblicato, qualche anno fa, un libro affascinante quanto vertiginoso, capace già solo nel titolo di far vibrare di antichissimo suono le nostre eliche cromosomiche: The Singing Neanderthal.
Il sottotitolo, The Origins of Music, Language, Mind and Body, è in qualche modo una delle varianti analitiche di un’altra potentissima intestazione, quella dell’antropologa parigina Marylène Patou-Mathis: Une autre humanité.
Nel nostro passato profondo c’è anche la storia di una umanità “altra”, marginalizzata fino all’estinzione, quasi divorata dal popolo Sapiens. Frammento di Dna in ognuno di noi, come lascito nutriente di un lontanissimo rito cannibale.
Specie minor, stando allo stigma ultra-troglodita affibbiatole, che però in anni recenti trova il modo di alzare decisamente la testa.
Del Neanderthal man mano si scopre una prossimità conturbante all’Homo moderno, segnata da ancestrali riti funebri, gesti estetici, lingua e universo simbolico.
Una altra-umanità così quasi-Sapiens da permettere di immaginarla ramo alternativo, storia umana mai vissuta ma assolutamente reale.
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La recente scoperta di una “gastronomia” neanderthaliana non fa che rinforzare questa percezione.
Nella grotta di Shanidar, a quasi mille chilometri da Baghdad, si sono scovate le tracce non solo di un antichissimo pasto, ma anche quelle di un vero e proprio edonismo alimentare.
Mentre si sono immaginati per molto tempo i nostri antichissimi impegnati in una seriale e monotona demolizione di carcasse di cacciagione, i dati archeologici hanno rivelato la pratica della cottura in rudimentali forni e, in essi, tracce di noci, semi, lenticchie, piante selvatiche come la senape.
Gli studiosi della John Moores di Liverpool si sono ben preoccupati di recuperare gli stessi ingredienti, di pestarli come facevano i Neanderthal e di combinarli in una – incredibilmente adatta alle diete di oggi – focaccia preistorica.
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Ma allora, individuata l’esistenza di una cultura connotata, individuata la possibilità di un perimetro identificatorio, non possibile scavare alla ricerca dei lasciti peculiari di quella autre humanité?
Non potremmo, lasciandoci cullare dalla suggestione, pensare il nostro primo eroe, Eracle, avvolto in pelle di leone e armato di clava, nomade avventuroso, come platica ricostruzione di una memoria neanderthaliana lontanissima?
Oppure. Non sappiamo già benissimo che un materiale mitopoietico primordiale come quello della “caccia cosmica” è trasversale a molte delle culture umane? Così diffusi, quel cacciatore e quella preda tramutati in stelle, da essere pensabili come eredità proto-mitologica, diffusa a mezzo migrazioni, di una umanità ancora al suo primo nucleo. Ancora per suggestione, allora, non possiamo guardare alle grotte spagnole studiate da Pike e Pettitt, istoriate dalle grandi prede che ne risalgono le volte cavernose, quasi inseguite da quelle mani neanderthaliane soffiate nell’ocra, come a una testimonianza autoriale?
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Continuando a giocare al What if?, la domanda più forte, come certamente più ovvia, riguarda il grande bivio che ha portato all’umanità moderna.
E se avesse prevalso il Neanderthal?
Saremmo solo un poco più bassi? O forse saremmo più pacifici e spirituali?
Le nostre facce sarebbero così diverse da scompaginare le categorie di “brutto” e “bello”? O magari gli stessi concetti di “brutto” e “bello” non esisterebbero?
Saremmo magari eredi di una società matriarcale? E magari saremmo più giusti, più solidali, meno ipocriti..?
Utopia è dietro l’angolo.
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C’è un pensiero, formulato non a caso da uno scrittore di fantascienza: Troppo presto fuori dalle caverne, troppo lontani dalle stelle.
Ray Bradbury, l’autore di Fahrenheit 451, in questo brevissimo – ma mieloso e autoreferenziale – quasi-saggio-autointervista cerca di mettere insieme le due vertigini, quella del passato e quella del futuro.
Non ci sono argomentazioni vere e proprie, ma c’è una intuizione. Abbiamo lasciato troppo in fretta le caverne; abbiamo lasciato troppo indietro: perfino un’intera umanità.
E ora che – corrivi e sprovveduti – siamo allo scoperto, sotto una pioggia di stelle: non ci resta che l’ideale, l’aspirazione a qualcosa più grande e di più giusto.
Forse ritrovare quel che abbiamo lasciato indietro tanto tempo fa, quell’autre humanité così “addosso a noi”, può aiutarci a abbandonare le idealizzazioni e a ritrovare la nostra misura?
Può aiutarci a capire che siamo stati una specie invadente e pervasiva? Che essere uno Tsunami ecumenico e ecologico è una caratteristica dei Sapiens?
Se il racconto valesse per ripensare quella mitologia dell’Hybris, del travalicamento, del superamento, tanto occidentale quanto poco altromondista…
Sebastiano Bertini
Lo Scavalco è una scorciatoia, un passaggio corsaro, una via di fuga. È una rubrica che guarda dietro alle immagini e dietro alle parole, che cerca di far risuonare i pensieri che non sappiamo di pensare.
Sebastiano Bertini è docente e studioso. Nel suo percorso si è occupato di letteratura e filosofia e dai loro intrecci nella cultura contemporanea. È un impegnato ambientalista. Il suo più recente lavoro è Nel paese dei ciechi. Geografia filosofica dell’Occidente contemporaneo, Mimesis, Milano 2021. https://www.mimesisedizioni.it/libro/9788857580340