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Appunti semiseri: la confusione della Madonna e l’uomo che non deve chiedere mai

Non c’è niente di più bello e vero dei luoghi comuni” diceva Charles Baudelaire. “In un autentico luogo comune vi è certamente più umanità che in una nuova scoperta” gli faceva eco lo scrittore Robert Musil. E infine, citando il filosofo spagnolo Ortega y Gasset: “i luoghi comuni sono i tram del trasporto intellettuale”. E in effetti, i luoghi comuni, per quanto obsoleti, farraginosi, insulsi e spesso fastidiosamente affollati, servono un po’ a tutti. Proprio come i tram: perché ognuno di noi sa che difficilmente sbagliano strada e che, in ritardo o in anticipo, alla fine ci consegneranno sempre alla nostra fermata.

Ora, è evidente che chi è alla ricerca della verità sul mistero della vita o (poniamo) dell’algoritmo che possa svelare all’uomo il dono dell’ubiquità o dell’immortalità, non è sui luoghi comuni che potrà fondare le sue teorie. Per tutti gli altri casi francamente non vedrei grosse difficoltà. Funzionano e, a volte ci dicono più di quanto promettono.

Tuttavia, spesso si rivelano a corto respiro, fallibili e l’impressione generale è che più si scava e più rischiano di diventare inattendibili. Come faceva notare l’artista Max Jakob: “Il luogo comune è uno stereotipo comodo nella conversazione per astenersi dal sentire”. Parlando di Sicilia, in mezzo a mare, mafia, coppole, granite, vampate di calore, fichi d’india, cannoli, arancine/i, rosoli e quant’altro, di luoghi comuni se ne contano a centinaia, forse a migliaia. Difficile creare una classificazione in ordine di importanza. Fra i più sfiziosi, quelli che si attengono al comportamento dei siciliani e ai retaggi culturali dietro al loro modo di fare. Come tutti gli stereotipi, attingono e si nutrono spesso di un grasso sostrato di ignoranza (“non conoscenza” delle cose) che ne alimentano o sminuiscono il valore e la veridicità: a seconda di chi le dice e di come le dice. Comunque, il più delle volte ignoranza + tempo tendono a creare un cocktail irresistibile e indistruttibile. Con il risultato che, alla fine, diventa complicato demolirne gli eventuali effetti deleteri. Vedi i seguenti esempi: “i siciliani sono tutti mafiosi / rozzi / scansafatiche / arretrati” e via discorrendo.

Uno dei luoghi comuni più triti vuole il maschio siciliano particolarmente geloso e possessivo, cocciuto come un mulo, permaloso come una scimmia, erotomane come un antechino della Tasmania. Per quanto riguarda l’altra metà dell’universo, la ricetta per catalogare la femmina sicula è da un paio di secoli apparecchiata su un vasto corpus prima letterario e poi cinematografico e consegnata all’umanità quasi fosse parte delle sacre scritture: remissiva, sottomessa e gelosa alla follia, focosa e colpevolmente fedifraga, vana e confusionaria, quando non particolarmente svanita e clamorosamente superficiale. Tutto ciò, manco a dirlo, riflette un vasto retaggio di natura maschilista che, nonostante tenda a stridere quanto mai oggi, in tempi di acuto political correct, sembra comunque resistere bene contro l’usura del tempo.

A scanso di equivoci, non cercheremo in queste poche righe di compilare un saggio di antropologia o di psicologia che non siamo peraltro in grado di scrivere. Quello che possiamo provare a fare è farci trasportare da un posto all’altro, da un luogo (comune) ad un altro, nella speranza di cogliere qualche mezza sorpresa per via. Fra un modo di dire particolarmente “icastico”, una Madonna che va in confusione e l’iconografia decisamente porno con la quale, ogni santo giorno, soliamo costellare l’accidentato reticolo dei nostri discorsi.

Qual è l’argomento che abbiamo in mente? In soldoni: la malsana centralità della figura maschile e la necessaria subordinazione di quella femminile, nella cultura sicula. Siamo d’accordo: è come cercare un ago in un pagliaio. Ma qualcuno deve pur farlo … questo sporco lavoro.

E partiamo dalla mitologica permalosità del maschio siciliano descritta in lungo e in largo da Sciascia fino a Bufalino, passando per Vittorini e Brancati. Fra loro però, spiace dirlo, nessuno ha messo l’accento su una forma distorta di permalosità che in Sicilia ha da sempre spadroneggiato.

Sull’isola infatti la permalosità assume dei connotati così tipici che si potrebbe parlare di permalosità autoctona, come di un tipico vitigno che cresce sull’Etna, il Carricante o di una varietà di olivo, la Nocellara che cresce negli altipiani del Belice.

In genere, per i non siculi, ossia per il resto del mondo, la permalosità si manifesta in soggetti che mal digeriscono le critiche e che, per qualsiasi motivo, si sentono costantemente sotto attacco da parte di tutto e di tutti. Mancanza di autostima oppure particolare narcisismo, fra le cause più profonde dei permalosi. Un affaire da psicologia: me ne rendo conto.

Discorso diverso per i “permalosi autoctoni”. In loro è spesso una forma di devianza dalla permalosità standard a comandare i giochi. In questo caso non sono solo le critiche a mandarli fuori giri, ma anche le lusinghe. Sì, avete capito bene.

Questa particolare forma di permalosità, portata al limite, non permette loro di godere nemmeno quando gli altri ne apprezzino l’operato. Fraintendimento che non impedisce di lasciare spesso con l’amaro in bocca i loro interlocutori. I quali, magari, si aspetterebbero al contrario di essere ricambiati per il loro gratuito e genuino slancio o gesto di affetto. Ed invece, clamorosamente, a muso duro, si vedono chiusa in malo modo la porta in faccia.

Ora, chi non ricorda il detto della nonna:

Un ci si po’ diri quantu su beddi st’occhi” (trad. non gli si può nemmeno dire quanto sono belli i suoi occhi)

Semplice quanto meravigliosa constatazione che riassume in una riga, un intero trattato di psicologia. Dove il parlante lamenta l’eccessiva permalosità di chi, nemmeno a forza di plausi e di salamelecchi d’incoraggiamento, riesce a godersi una vittoria, un complimento, un encomio, fosse anche il più sincero, pieno di calore e di genuino affetto.

Perché accade questo? Cosa bolle nella testa del nostro permaloso isolano? Non se ne può avere certezza ovviamente. Ma un’idea, partendo da un’attenta osservazione del fenomeno, se la può fare chiunque. A mio avviso è spesso l’eccessiva confidenza nei propri mezzi e in sé stesso che lo porta oltre il punto di non ritorno. L’Homo Faber Fortunate Suae siculo dà ormai per scontato di essere (da sempre) al di sopra di tutto, superiore, e sicuramente ben all’altezza di quel complimento. Lui lo sa e per questa ragione si sente di non doverlo dimostrare a nessuno. Per tale motivo gli dà fastidio, gli prudono le mani, quando capita che qualcuno gli ricordi l’ovvio. Nella sua testa, lui è bravo a prescindere. Anzi Lui è il più bravo. Lo sa già. E si offende se qualcuno invece non solo non se ne era già accorto ma, disgraziatamente, glielo fa pure notare. Gioco / partita / incontro. Da qui a cascata, simile ad un diagramma di flusso discendono tutte o una buona parte delle storture che regolano le sue difficili giornate: un vaso di Pandora, pieno e pronto a scoppiare in faccia al malcapitato. Si salvi chi può…

Per la prossima fermata del tram abbiamo bisogno di una lunga circonlocuzione, prima di trovare la giusta via. Vediamo un po’…

Beddra Matri da Cunfusione” è una espressione che mi ha sempre fatto sorridere. In tutto il trapanese esiste la venerazione di Maria Santissima della Confusione. Un culto serio che coinvolge parecchie persone che, segnate indelebilmente dalla vita, cercano conforto nella religione dopo essere incorsi nella peggiore delle tragedie. Un culto maledettamente grave, su cui non c’è davvero niente da ridere e che ci parla di come una mamma resti confusa, cioè afflitta e smarrita, dinanzi alla dolorosa morte di un figlio.

Eppure l’espressione “pari ‘a Beddra Matri ra’ cunfusione” (trad. sembra Maria Santissima della Confusione) nel marsalese, forse anche nel tentativo di esorcizzazione del “dolore massimo”, si è ritagliata un preciso spazio e un tempo comico davvero notevole. Forse perché viene associata ai gesti e alle espressioni di chi, versante femminile, non essendo dotato di particolare aplomb, o per meglio dire, non dimostrando particolare sangue freddo nei momenti topici, si lascia andare a tutto un campionario di comportamenti a dir poco goffi e per questo snervanti e involontariamente divertenti.

Chi non si è trovato una volta nella vita di fronte a queste amiche “confuse e felici”? Chi davanti al balbettare confuso, il roteare delle pupille alla ricerca di un approdo sicuro, il nervoso mulinare di mani e braccia, nonché il tic ricorrente di toccarsi nervosamente ciglia, naso, bocca, collo, capelli, in un vortice circolare … chi, davanti a questo strano modo di rapportarsi con la sua interlocutrice, non ha infine provato allo stesso tempo un leggero spaesamento, misto ad un inconfessato divertimento strozzato in gola?

Questa sorta di imbarazzante caos scatenato dal parlante ha indotto in passato a tradurre la scena in una immagine plastica: la Madonna trafitta al cuore, immagine dissacrante per antonomasia, con lo scopo di esorcizzarne il dolore e, in virtù di questo, restituircelo in un a forma di divertimento. Ha funzionato? Direi di sì … Non è forse nel contrasto degli stili che spesso si annida l’esplosione del genio?

Dopodiché notiamo che la categoria della Beddra Matri della Confusione (di quelle con la testa dissariata o ‘nfusca), pur essendo quanto mai trasversale, potendosi riferire sia alle azioni di un uomo quanto a quelle di una donna, siano invece esclusivamente dedicate alla categoria femminile. Con buona pace del political correct.

Quanto ai maschi comunque l’equivalente non sembra certo meno colorito ed impietoso. “Un cazzu confusu” è solo una delle sapide immagini con cui l’uomo subissato dalla confusione eterna sembra dover combattere, in una lotta quasi titanica per non rimanere strozzato dalla seria minaccia alla propria virilità. È in certo senso il suo destino quello di dover affrontare le malelingue e lo stigma dell’inettitudine, con la ricorrente immagine del proprio membro virile, in vernacolo, sua maestà “sta minchia”, declinata sapientemente in ogni sorta di vezzeggiativo: minchiazza, minchia modda, minchia morta, malaminchiata…Solo per citare qui le basi. Ma la cui declinazione potrebbe continuare, quasi all’infinito: addritta / cacata / carricata di passuli / china d’acqua, china di …ogni ben di Dio…

Un destino non troppo casuale, dal momento che, si noti, nel momento più imbarazzante l’uomo, il maschio cioè, ha da sempre pensato di associare una sua debolezza all’immagine dello strumento principe della sua supposta superiorità: la ciolla…(altro sinonimo, per indicare il pene). Controprova ne è la scarsa, scarsissima casistica espressiva cui si presta nei vari dialetti siculi, l’opponente femminile: ‘u sticchiu (la vulva …). Costantemente alcentrodel pensiero maschile, un chiodo fisso, ma nonostante ciò, scarsamente citato e quasi assente dal fluire del dialogo informale. Un oscuro oggetto del desiderio… che rimane spesso, immotivatamente, sotto traccia, nonostante sia il cardine attorno al quale gira l’intero universo (sicuramente quello siculo).

È tempo di qualche breve considerazione. Nessun altro popolo (di cui si sappia) ha un rapporto cosi distorto con il “corpo plastico” del membro maschile. Un rapporto così maniacale e di certo insano se non malato che già molti prima di noi (e in maniera più acuta) avevano passato al setaccio. Non vi risparmiamo qui altri esempi di ambiti ed occasioni in cui farne sfoggio: per esprimere improvvisa ed inaspettata meraviglia (minchia!) in forma sincopata (‘nchia!) o per esteso (minchia), come semplice intercalare (‘inchia), nel fluire concitato di un racconto (‘inchia), nella formazione di una sorta di superlativo assoluto (‘inchia), e nel più classico dei casi: “ma che minchia fai?” E qui mi fermo.

D’altra parte, che in passato qualcosa sia andato storto sull’isola, sul versante sessualità/erotismo, ce lo dice anche l’eccessiva sovraesposizione di un’altra parola-chiave del vocabolario popolare: “suca”. Non c’è scarabocchio in ogni murales che non rechi il marchio di fabbrica: in ogni angolo, su ogni muro pubblico, sui cassonetti dell’immondizia, sulle pareti fresche d’intonaco, sulle bacheche dell’Università, nelle sale d’aspetto degli Ospedali e, ça va sans dire, nei bagni di ogni ordine e grado. In ogni punto in cui, un pennarello di fortuna si trovi ad incontrare un piccolo spazietto libero ecco il patatrac. Statistiche alla mano, sembra che nel 50 % dei casi, in Sicilia, questo evento-incontro (non raro, evidentemente) generi immancabilmente la nascita di quella parola lì.

In mezzo ai suca prosaici, però, se ne nascondono alcuni con velleità artistiche… C’è un artista nel catanese che in un murales di qualche anno fa, all’acme dell’ispirazione rendeva noto urbi et orbi la sua definitiva vittoria nei confronti della vita: “mbari, ma stai sintennu sucata’ (senza traduzione …). Present continuous. In un movimento circolare. Ora e per sempre. Da scialo, certo…

Per par condicio, un suo degno collega palermitano, nello sforzo di risultare amabile alla platea che aveva la fortuna e l’onore di ascoltarlo, con fare sornione, così soleva apostrofare la sua complice signora: “Sucaaa… e levati u vizziu”. Risate assicurate. Perfetta messa in scena di una pantomima ben orchestrata, magari non “delicatissima” ma efficace, con al centro un grande classico: il dramma della gelosia. Se non fosse che tutto ciò non riveli una macabra attinenza con la triste cronaca di questi anni. Almeno a giudicare dall’impressionante numero di femminicidi

E poi c’è chi dice che non ci sono più i vecchi luoghi comuni di una volta…

15 luglio

Gianvito Pipitone

La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri

L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.

Gianvito Pipitone

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