Ludovico racconta il Covid: “Ho visto la morte, ma in ospedale mi ha salvato il conforto di sanitari e compagni di stanza”

redazione

Ludovico racconta il Covid: “Ho visto la morte, ma in ospedale mi ha salvato il conforto di sanitari e compagni di stanza”

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martedì 09 Novembre 2021 - 09:00

Il marsalese Ludovico Anselmi, oggi 83enne, ci racconta la sua esperienza in ospedale con il Covid-19, malattia che ha brillantemente sconfitto:

“Non erano trascorsi neanche sei mesi da quando avevo compiuto 82 anni, eravamo nel settembre del 2020, Al che ho accusato inappetenza, quel poco che riuscivo ad ingoiare veniva vomitato, ero condizionato da continua diarrea ed i miei muscoli non rispondevano più ai miei comandi. Ero frastornato, anche la mia mente mi tradiva, per dirla in breve, non mi riconoscevo più. Avevo perso anche molto peso. E’ qui allora che i miei tre figli, Giovanni, Maria e Antonino, preoccupati per il futuro della mia salute, non intuendo ancora che io fossi già figlio del Covid-19, si sono attivati per ottenere non uno ma due ricoveri, uno dopo l’altro all’ospedale “Borsellino” di Marsala, mia città natia. La diagnosi che hanno trasmesso per due volte è stata “portatevelo a casa e fate delle radiografie allo stomaco”, assicurando che cuore e polmoni risultassero, dagli esami eseguiti, nella norma. A Marsala la dizione “portatevelo a casa” ha significato da sempre “certificato di morte”. I miei tre figli, addolorati e spaventati, si sono allora attivati per ottenere un ricovero presso un ospedale di Palermo e sono riusciti, grazie all’aiuto di un loro carissimo amico, ad ottenere la possibilità di ricovero presso il Civico “Di Cristina-Benfratelli”, dove sono poi rimasto ricoverato dal 14 settembre al 24 ottobre 2020. Per trasferirmi da Marsala a Palermo è stata usata un’auto dove sono stato disteso nel sedile posteriore con la testa appoggiata in un cuscino. I miei figli mi hanno raccontato che entrati al Pronto Soccorso hanno provveduto ad eseguire un tampone e l’esame del sangue. Dopo diverse ore di attesa – io sempre disteso incosciente nell’auto – hanno comunicato che non c’erano più posti letto. Ancora telefonate e dopo altre ore di attesa, mi hanno ricoverato alle 20 in una stanza semi buia al secondo piano munendomi di mascherina per l’ossigeno. Sono rimasto solo e addormentato per più di 5 giorni senza alcun contatto se non quello degli infermieri e dei medici.

Quando ho cominciato a risvegliarmi, grazie alle cure, ho avuto l’occasione di sentire mia moglie, addolorata, ed i miei figli al telefono, preoccupati. Chiesi se avessero la possibilità di spostarmi in altra stanza con più luce perché in quel posto il mio pensiero rincorreva la morte, anzi quasi la chiamavo. Nell’unico contatto telefonico, moglie e figli mi raccomandavano di non fare colpi di testa perché sarebbe stata un’offesa verso chi si era impegnato per il mio ricovero. Ero tra l’incudine e il martello. Questo mi ha costretto a rimanere in quel triste posto con la speranza di un cambiamento. Era quindi arrivato il momento di scegliere tra l’incudine e il martello senza colpo ferire. Sono affiorati i ricordi del mio passato, a quando ero attivista sindacale e facevamo ricorso agli scioperi per ottenere le richieste di lavoro. Questo mi spinse ad usare lo stesso sistema per ottenere il cambio stanza. Così quando sono arrivati gli infermieri per il prelievo e le medicine io mi sono rifiutato dicendo che ero in sciopero e che era una giusta occasione per farli riposare. Ho pensato anche alla possibilità di essere cacciato dall’ospedale che diventava un favore non avendo più la forza fisica e mentale per proseguire questa triste vita.

Ricordo che mi presero con la forza e mi trovai nella stanza n. 10 del primo piano. Svegliatomi, noto che nel lettino vicino c’era un altro figlio del Covid-19 in fase di guarigione. Dal primo momento nel quale mi rivolse la parola salutandomi e chiedendo mie notizie, si è impossessato di me un efflatus positivo di tranquillità e benessere che è durato per tutto il rapporto amichevole che ho avuto e continuo ad avere con lui. Quando decisero di ricoverarmi ho pensato alla frase che il Sommo Dante scrisse all’entrata dell’Inferno “Lasciate ogni speranza o voi che entrate”. Ebbene, quando sono entrato nella stanza del mio incomparabile amico Tommaso e fino alla mia dimissione, posso affermare con sicurezza che ero già in Paradiso. Tommaso sin dal primo momento mi ha confortato sia spiritualmente che fisicamente, proprio quando ne avevo più bisogno. La stanza n. 10 era formata dai lettini e da un gabinetto del quale non potevo usufruire essendo completamente impossibilitato a muovermi. La pulizia del mio corpo e dei miei bisogni erano affidati agli infermieri addetti che svolgevano questo compito con abilità e correttezza. Tommaso mi aiutava durante i pasti che il mio corpo rifiutava di assaggiare, a deglutire un pò alla volta, anche i medici mi esortavano. In questi interminabili giorni, io andavo riprendendomi. E’ qui che ho appreso che Tommaso era da più di 40 anni un sincero Testimone di Geova e che apprezzava la mia amicizia. Abbiamo parlato della Bibbia, di quello che siamo, perché ci siamo e come siamo, con il tempo e lo spazio che ci condizionano, che siamo soli nell’Universo e se esiste un Creatore di tutte le cose. Concetti che mi facevano tornare ai tempi della scuola e allo studio della Filosofia e che ci hanno legato spiritualmente: lui riferendo tutto al suo Geova, io nell’aver trovato una persona con la quale stavo volentieri come uno di famiglia. E’ rimasto in me impresso il momento in cui lui poteva essere dimesso e invece ha preferito rimanere altri giorni per cercare di rendermi indipendente. Mentre parlava al telefono con la moglie, ha voluto che le parlassi anch’io e quando ho sentito la sua voce ho avuto la sensazione che venisse dal cielo. Ho conosciuto dopo la signora Rosaria e ho avuto la conferma che la sua era una voce celestiale. Nel frattempo i miei figli erano riusciti a farmi pervenire l’occorrente per il cambio dell’intimo, per barba e capelli che Tommaso ha usato per farmi rifiatare. Fu allora che con il sorriso sulle labbra, in senso ironico, gli dissi che era riuscito a farmi “barba e capelli”.

Ho conosciuto i medici e gli infermieri che ci curavano con affetto ed amore, principalmente il professor Onorato. La sera tardi dopo aver completato il suo turno, come ci hanno riferito, si appartava per andare a studiare le cartelle cliniche degli ammalati ricoverati ed assegnare la migliore cura ad personam. Ho conosciuto anche la dottoressa Sanfilippo che, quando ha chiamato il mio nome, ho notato che le era scesa una lacrima. Ho saputo da lei che suo nonno si chiamava pure Ludovico e mi ha mostrato una sua foto: mi somigliava, anche se era più alto. A questi aggiungo la grande qualità di persone che si sacrificano per il bene del prossimo e che ho invitato a casa mia a Marsala, credo che esaudiranno il mio desidero e quello della mia famiglia.

Una volta dimesso il mio amico Tommaso, la mia tristezza mi teneva incapace di intendere e di volere, sino a quando ad occupare il lettino è arrivato Vittorio, la quale entrato in stanza e sistematosi, ha iniziato a cantare la più bella canzone di Modugno, “Meraviglioso”. Mi ha consolato con le sue canzoni per tutto il periodo che è rimasto con me. Dopo tre giorni dalle mie dimissioni, anche lui è tornato a casa e oggi ci sentiamo telefonicamente ogni giorno.

Nel periodo nel quale è arrivato Vittorio sono stato ad osservare circostanze che prima non avevo avuto la volontà di capire. Ho notato che i medici e gli infermieri che entravano nella stanza per curarci erano coperti da uno scafandro bianco, tristi e visibilmente stanchi, col sudore che gocciolava. Sono rimasto una notte sveglio per pensare a cosa potevo fare per aiutarli. La mattina seguente mi sono procurato un grande tovagliolo, che mi avevano inviato i miei figli, nel quale, con una penna raccattata, ho scritto a stampatello “la stanza del sorriso”. Ho detto agli infermieri che appena entravano ricevevano il mio sorriso, ma quando uscivano dovevano lasciarmi il loro. Dapprima mi dicevano che con la bocca chiusa dalla tuta non potevano ricambiare, ma poi li ho convinti a sorridere con gli occhi. Ero contento di aver dato loro anche un lieve aiuto psicologico, confermato dal fatto che una sera, sul tardi, in stanza era entrata una infermiera la quale, con voce flebile, mi ha detto: “Signor Anselmi, sono venuta a lasciarle il mio sorriso”.

La mia felicità è stata inarrestabile. La mia vita continua ora serena con la mia famiglia ed in me è rimasta la certezza che in questo mondo nel quale viviamo, non siamo mai soli.

Ludovico Anselmi

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