Processo Perricone, iniziate le arringhe delle difese

redazione

Processo Perricone, iniziate le arringhe delle difese

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domenica 06 Giugno 2021 - 17:49

Nel corso dell’udienza di venerdì, svoltasi presso il tribunale di Trapani, ha preso la parola uno dei legali di Maria Lucia Perricone, cugina dell’ex vicesindaco di Alcamo. Le parti civili hanno, invece, depositato le loro richieste di risarcimento danni.

Davanti al collegio dei giudici, presieduto dal dottore Enzo Agate e a latere le dottoresse Roberta Nodari e Chiara Badalucco, sono cominciate le arringhe delle difese degli imputati del processo nato dall’inchiesta della Procura di Trapani, denominata “Affari Sporchi”, del 2016.

In particolare, ha preso la parola uno dei legali di Maria Lucia Perricone, cugina di Pasquale Perricone, ex vicesindaco di Alcamo. Nello specifico, l’avvocato Giuseppe Junior Ferro ha chiesto ai giudici l’assoluzione per la sua assistita relativamente all’associazione a delinquere perché il fatto non sussiste e alla bancarotta fraudolenta e preferenziale per non avere commesso il fatto. Come già chiesto dal pubblico ministero, la dottoressa Rossana Penna, il legale della Perricone ha proposto l’assoluzione relativamente al capo di imputazione che riguarda la vicenda della formazione professionale, in quanto non avrebbe assunto alcun incarico di docenza. L’avvocato Ferro, nell’esporre la sua arringa, ha esordito paragonando il suo intervento ad una visita al museo del Louvre, da effettuare in 7 minuti o in una settimana. Tre sono le parti di una conversazione, definite “opere d’arte” dallo stesso, che escluderebbero le ipotesi di reato contestate a Mary Perricone e al cugino dalla Procura di Trapani. In particolare, quelle del dialogo captato tra il politico alcamese e la cugina, tenutosi il 17 febbraio del 2015 all’interno dell’ufficio sito in via Goldoni n.6 Alcamo, relativo alle indagini sulla bancarotta fraudolenta del porto di Castellammare del Golfo. Pasquale Perricone avrebbe chiesto, nella prima parte, in che modo venisse pagata all’interno del cantiere. Una domanda che, per la difesa, dimostrerebbe che l’ex vicesindaco di Alcamo non fosse a conoscenza dei rapporti di lavoro della parente con la Cea. Secondo l’accusa, invece, durante questo colloquio i due cugini avrebbero cercato di costruirsi una griglia difensiva. Nella seconda parte dell’intercettazione, poi, Pasquale Perricone, ha spiegato il legale, non indicherebbe mai alla cugina che cosa doveva fare. Ed, infine, nella terza parte della conversazione, concernente la proposta di transazione della Cea a Coveco (capogruppo dell’associazione temporanea di imprese che si sono aggiudicate l’appalto dei lavori del porto di Castellammare), e il piano di ristrutturazione della Nettuno, il politico alcamese le avrebbe chi fossero gli amministratori della Cea succedutosi nel tempo. Fatto che proverebbe che non fosse a conoscenza delle dinamiche della società. Invece, nell’intercettazione relativa all’acquisizione delle certificazioni Soa, nella quale lo storico esponente del Psi alcamese dichiarava “perché sennò significa che già si stavano organizzando le cose per fare abbuccare la CEA e quindi di conseguenza incularsi la Nettuno”, secondo l’avvocato Ferro, Perricone farebbe “l’avvocato del diavolo”, ponendosi dalla parte degli inquirenti. Quindi, la risposta di Mary Perricone “In realtà non c’era questa cosa”, escluderebbe in radice qualsiasi intento di sciacallaggio imprenditoriale. Nella sua requisitoria, ha dichiarato l’avvocato Ferro, il pubblico ministero avrebbe omesso di riportare questa seconda parte dell’intercettazione, definendo tale dimenticanza un “lapsus freudiano”. Poi, in un’altra conversazione captata nel 2014, nella quale Pasquale Perricone chiedeva alla cugina chi c’era anche nel Cpc, il politico alcamese fungerebbe sempre da avvocato del diavolo e, dunque, ha ironicamente affermato il legale “il leader maximo, dai trascorsi cubani, non sa le cose”. Pertanto, se fosse a capo del consorzio criminale ci si dovrebbe chiedere, secondo la difesa, perché cerca di farsi spiegare le cose dalla cugina. Inoltre, per quanto concerne il piano di ristrutturazione della Nettuno, Mary Perricone avrebbe agito a supporto della consortile, in quanto entrata nella vicenda “a mo’ di consulente”. Per quanto riguarda, invece, l’ipotesi di bancarotta fraudolenta, l’intervento dell’avvocato Ferro si è incentrato in gran parte sul ruolo della testimone dell’accusa, Annamaria Emmolo, durante le indagini e nell’arco del processo. Il legale ha chiesto al collegio dei giudici di valutare anche l’attendibilità della teste. L’avvocato Ferro ha ricordato che Annamaria Emmolo è sorella di Vito, titolare della Cogem e vicepresidente della Nettuno, uscito fuori dalle indagini sul sequestro del porto e condannato in sede civile. Attraverso la sua capacità persuasiva, per la difesa, Annamaria Emmolo avrebbe contribuito a sviare le indagini perché interessata ad escludere il fratello. Secondo il legale, mediante le sue dichiarazioni, rese lo stesso giorno delle perquisizioni nei locali della Cogem, il 7 febbraio del 2014, sarebbe riuscita ad “ingolosire” gli investigatori coinvolgendo nell’inchiesta sulla bancarotta Pasquale Perricone, fornendogli una trama diversa della vicenda con un soggetto come il vicesindaco del Comune di Alcamo, presidente del Consiglio comunale, candidato anche all’Ars, e in stretti legami con l’ex senatore Nino Papania. Inoltre, si sarebbe anche instillata una componente mafiosa nelle indagini. Quindi, citando Al Pacino che nel film “L’avvocato del diavolo” afferma “La vanità, il mio peccato preferito”, il legale di Mary Perricone ha sostenuto in aula che la signora Emmolo avrebbe sollevato la vanità negli investigatori. Annamaria Emmolo, ha ricostruito l’avvocato Ferro, è entrata nella vicenda del porto di Castellammare del Golfo dopo il sequestro come liquidatore della società Cogem. Successivamente, gli imprenditori Emmolo si sarebbero spogliati dei loro beni per evitare il fallimento. Ad esempio, avrebbero ceduto un ramo aziendale della Emmolo Francesco ad una ditta di Agrigento, nel cui compendio sarebbe compresa anche la Fiat Panda sul cui parabrezza, nel 2014, sarebbe stato ritrovato dalla signora Annamaria un biglietto intimidatorio a lei indirizzato. Una coincidenza sarebbe poi quella della separazione dal marito, Leonardo Impastato, avvenuto un mese dopo dal citato sequestro del porto di Castellammare nel 2010. Per la Emmolo, poi, Antonino Russo, Rosario Agnello e Domenico Parisi (amministratori della Cea coinvolti in un procedimento parallelo) sarebbero le “teste di legno” di Pasquale Perricone, ma non avrebbe riferito nulla sulle somme recuperate nel 2011 da Coveco. Non avrebbe, poi, detto che le imprese Emmolo facevano parte del consorzio Promosud, che si occupava dei lavori edili, insieme agli altri soggetti amministratori della Cea verso i quali avrebbe, con le sue dichiarazioni, manifestato delle antipatie. Fatto che per la difesa confliggerebbe con le confidenze ricevute da Mary Perricone nell’asserito rapporto amicale. La famiglia Emmolo, tra l’altro, si sarebbe spesa per far accettare ai fornitori della Nettuno il piano di ristrutturazione di Mary Perricone. La sua assistita, ha spiegato l’avvocato Ferro durante la sua arringa, è stata sempre indicata dai testimoni estranei e interni alle vicende del porto di Castellammare come una dipendente amministrativa e, quindi, come i suoi omologhi delle altre imprese interessate all’appalto dei lavori del porto, avrebbe partecipato alle riunioni relative. Oggetto dell’arringa è stata anche una mail inviata dall’avvocato Stefania Lago della Coveco all’avvocato Giovanni Lentini legale della Cea ( anche di Mary Perricone nel processo in corso) nella quale avrebbe sottolineato l’improprio coinvolgimento della cugina del politico alcamese “Gnech ( direttore tecnico del Coveco ndr) mi segnala che si tratta di interlocutore a suo giudizio non sereno posto che la signora Perricone avrebbe avuto nei fatti poteri quasi decisionali nell’ambito di CEA e così pure nell’ambito della Nettuno”. Per la difesa, l’avvocato della Coveco avrebbe avuto interesse nell’estromissione di Mary Perricone dalla proposta transattiva tra Coveco e Cea. Le intercettazioni, poi, del 2014 escluderebbero il reato di associazione a delinquere, secondo l’avvocato Ferro. Mary Perricone non avrebbe detto nulla al cugino dell’avviso di garanzia ricevuto nel febbraio dello stesso anno e della successiva proroga delle indagini, non preoccupandosi di tali fatti e per tale motivo rimproverata più di una volta da Pasquale Perricone. Dunque, per il legale è strano che l’accusa la consideri suo braccio destro. Il pubblico ministero nella requisitoria, ha sostenuto il legale della Perricone, avrebbe assimilato la libertà imprenditoriale all’associazione a delinquere. Il problema, invece, consisterebbe nel fatto che non sarebbe chiaro quale fosse il programma delinquenziale. Sulla galassia delle società, per l’avvocato Ferro, non vi sarebbe inoltre nulla di penalmente rilevante. Per quanto riguarda la vicenda delle società Magara (amministrata da Mary Perricone) e Imex (unica nella quale figurerebbe Pasquale Perricone), non vi sarebbe stato alcun acquisto, ma un’operazione di recupero crediti. La circostanza, inoltre, che la Perricone si fosse informata sulla pratica presso l’Assessorato regionale competente della società del cugino, non costituirebbe reato. Sulle intercettazioni relative alle anticipazioni bancarie della Don Rizzo di Alcamo, il legale ha sostenuto che non si conoscerebbero i vantaggi della sua assistita, la quale chiamerebbe per cognome il direttore pro tempore Carmelo Guido e, dunque, non per nome come un rapporto confidenziale richiederebbe. “Mary Perricone ha detto sempre la verità” ha affermato l’avvocato Ferro, aggiungendo “Anche in fase cautelare”. Non vi sarebbe, pertanto, nessuna possibilità di contestazione perché sia in interrogatorio che in esame l’imputata ha detto sempre la stessa cosa. E sulle intercettazioni sul Cpc, il legale ha dichiarato che se fosse stata amministratrice di fatto avrebbe recuperato le somme spettanti. Inoltre, al contrario di quanto sostenuto dalla fonte dichiarativa Annamaria Emmolo, Mary Perricone non le avrebbe dato degli assegni. Infine, ha concluso “Perché stiamo processando Mary Perricone?”.

Nel corso della precedente udienza, tenutasi il 24 maggio scorso, ricordiamo, si è conclusa la requisitoria del pubblico ministero, la dottoressa Rossana Penna. La prima parte è stata trattata invece dal sostituto procuratore il 10 maggio ed ha avuto ad oggetto, tra i diversi argomenti esposti, l’accusa del reato di bancarotta fraudolenta e preferenziale, a carico dei cugini Perricone. Nello specifico, sono state discusse le cause del fallimento della consortile Nettuno, centro di imputazione dei costi del cantiere dei lavori di ampliamento del porto di Castellammare del Golfo, sequestrato nel 2010 dalle fiamme gialle, e finito al centro dell’inchiesta della magistratura trapanese. Nello specifico, sono state messe in evidenza le movimentazioni finanziarie intercorse tra la stazione appaltante (il Comune di Castellammare del Golfo), la capogruppo dell’Ati, Coveco (Consorzio Veneto), e le società del consorzio Nettuno (Cea, Cogem e Comesi). Dal Consorzio Veneto, dunque, sarebbero state emesse nei confronti della stazione appaltante 13 Sal (Stato avanzamento lavori) per circa 13 milioni di euro interamente incassati. Tali somme sarebbero poi state girate dal Coveco alle altre società per complessivi 11 milioni di euro, trattenendo però più di 1 milione di euro. Detta somma sarebbe stata, in parte, trattenuta da Coveco per dei crediti vantati nei confronti di Cea (società amministrata occultamente da Pasquale Perricone per l’accusa), per un ammontare di circa 777 milioni di euro e, in parte, a titolo di rimborsi per costi sostenuti per fidi, cauzioni e spese contrattuali, nei riguardi di Cea, Comesi e Cogem. Il primo credito citato sarebbe rappresentato da una fattura del 2010, emessa dalla Cea nei confronti di Coveco, ma ceduta all’Unicredit. Secondo la Procura, quindi, la liquidità derivante da tale fattura sarebbe stata incassata da Cea, la quale, però, avrebbe lasciato un debito all’istituto bancario. Dalle indagini, inoltre, risulterebbe che le consorziate della Nettuno, ovvero Cea e Cogem, fossero in sostanza dei suoi fornitori, ma, a differenza degli altri, non sarebbero stati inseriti nello stato passivo della società, a causa delle compensazioni contabili che sarebbero state dalle stesse effettuate. Dunque, per l’accusa, la Cea e la Cogem avrebbero visto soddisfatto il loro credito a differenza degli altri creditori. Da qui, il reato di bancarotta preferenziale. La prova, secondo il pubblico ministero, sarebbe stata fornita, tra l’altro, dalla stessa relazione del consulente tecnico della difesa. Inoltre, secondo la ricostruzione della Procura, la Cea avrebbe addebitato alla Nettuno gli oneri bancari, relativi ad anticipazioni per finanziare i lavori del porto, che sarebbero dovuti essere a carico solo di Cea. Tale reato sarebbe anche imputabile a Cea per circa 267 mila euro. Sostanzialmente, le consorziate, nonostante avessero ricevuto dalla capogruppo Coveco le somme dei vari Sal, non avrebbero invece effettuato tempestivamente i pagamenti a Nettuno. I versamenti, a parte il primo Sal, sarebbero stati eseguiti con il “contagocce”, ossia in diverse soluzioni e con importi esigui, tramite assegni e perfino in contanti. Le consorziate della Nettuno, inoltre, avrebbero azzerato le loro anticipazioni sui costi sostenuti già con l’incasso dei primi due Sal. In definitiva, le consorziate avrebbero ricevuto da Coveco più di 11 milioni di euro. Ma da tali somme andrebbero sottratti poi 1 milione e 865 mila euro circa per i costi relativi alle palancole, ottenendo così 9 milioni e 783 mila euro circa. Di tale denaro incassato, alla Nettuno è stato versato 8 milioni e 750 mila euro circa. Le consorziate, infatti, avrebbero trattenuto circa 1 milione di euro per costi e oneri sostenuti per quasi 500 mila euro, ma non documentati, come indicherebbe la stessa consulenza della difesa. Ciò significa che alla data di sequestro del porto di Castellammare del Golfo, la consortile Nettuno avrebbe eseguito lavori per un ammontare di più di 18 milioni di euro. Tali spese, al netto di quanto incassato dalle consorziate, sarebbero state a carico dei crediti insinuati allo stato passivo del fallimento della Nettuno, che ammonterebbe a 6 milioni e 300 mila euro ( tra cui debiti non contabilizzati nei confronti dell’erario). Il disavanzo per i lavori ammonterebbe a 3 milioni e 800 mila euro, costituito anche da debiti verso fornitori non pagati e non insinuati, inclusi 724 mila euro avanzati da Coveco, al posto di Nettuno, per soddisfare il credito della ditta Scuttari che ha fornito un pontone. Per l’accusa, dunque, emergerebbe la responsabilità delle consorziate di Nettuno, le quali con il loro parziale, ritardato e anomalo pagamento dei lavori eseguiti avrebbero creato lo stato di crisi finanziaria della società, sfociato nella sua insolvenza prima e nel fallimento dopo. Responsabilità sollevata anche dal curatore pro tempore della Nettuno. Secondo la Procura, infine, la Cea che dal secondo Sal aveva acquisito l’80% delle quote dei lavori, dall’appalto avrebbe goduto di disponibilità finanziarie utilizzate solo per sua gestione e non avrebbe impiegato alcuna risorsa economica propria per i lavori medesimi. Durante l’udienza di venerdì le parti civili hanno, inoltre, depositato le loro richieste di risarcimento danni. Nello specifico, l’avvocato Laura Marchingiglio, in rappresentanza della Cea in liquidazione coatta amministrativa, ha chiesto 1 milione e 780 mila euro circa; l’avvocato Loredana Casano in rappresentanza della curatela fallimentare della Nettuno ha avanzato una proposta di risarcimento pari a 6 milioni e 290 mila euro circa. La prossima udienza si terrà il 18 giugno.

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