Ci scrive un nostro lettore sulla ricorrenza della morte di Vito Pipitone.
“L’otto novembre scorso è stata ricordata la data dell’uccisione di Vito Pipitone, avvenuta settantatre anni fa, con una manifestazione organizzata da Libera alla quale il suo giornale ha dedicato un servizio che ho trovato di estremo interesse.
Devo premettere che ho frequentato per molti anni Vincenzo, il fratello più piccolo di Vito, con cui ero legato da una grande amicizia oltre che l’appartenenza al Pci. La sua abitazione distava meno di un chilometro dalla mia: io ero di Berbaro, lui di Berbarello. Due contrade confinanti come quelle descritte nel bellissimo monologo di Chiara Putaggio: “Maissala è tutta pezza pezza, una speci di cutra di pezze, una cuttunina di tanti culura…”
Ascoltavo da bambino i discorsi dei più grandi del Piano La Fata che parlavano di Vito, delle sue eroiche imprese, della sua intraprendenza e coraggio. Dirigente autorevole e stimato del movimento contadino, vice segretario della Confederterra di Marsala, era stato l’animatore principale dell’occupazione per la concessione delle terre incolte e si era battuto strenuamente per l’applicazione della riforma agraria. Se non fosse stato ucciso avrebbe continuato la sua opera per l’occupazione e l’assegnazione ai mezzadri di alcuni lotti del feudo il “Giudeo” nel territorio di Salemi. Molti di questi mezzadri erano del Piano La Fata.
“L’assassinio di Pipitone era il diciannovesimo della serie dei delitti sanguinosi consumati dalla reazione agraria in Sicilia, nel vano tentativo di spezzare il movimento contadino”,
scriveva L’Unità l’11 novembre 1947. Il quel periodo il ministro dell’Interno era Scelba e il presidente della regione siciliana Alessi. Entrambi erano stati accusati di essere i mandanti morali di quei delitti.
A Vincenzo chiedevo ogni volta che ci incontravamo di parlarmi di Vito, delle sue battaglie, della sua vita, della sua scelta politica e sindacale, della sua vocazione a mettersi al servizio dei lavoratori, dei loro diritti e della lotta contadina per l’occupazione delle terre incolte dei latifondisti. Del suo impegno per il riscatto e l’emancipazione, anche culturale, del suo popolo. Una vita breve ed intensa stroncata nel 1947 dalla mafia, ad appena 39 anni, essendo lui nato nel 1908. Un tempo che gli aveva fatto conoscere, sia pure da bambino, la prima guerra mondiale, poi, da adolescente e nella prima gioventù il fascismo, da adulto e da padre di famiglia, il secondo conflitto mondiale, la Resistenza, la guerra di liberazione, l’alba della democrazia, la Costituzione repubblicana – la nostra Carta – in cui il diritto al lavoro e le libertà fondamentali sarebbero state garantiti.
Ma per lui come per tanti altri cittadini del Meridione, in particolare della Sicilia, questi diritti e queste libertà erano lungi dall’essere salvaguardati e protetti. Sapeva che per conquistarli non bastava sfidare la miseria del primo dopoguerra ma era necessario battersi contro il potere dei grandi proprietari terrieri sostenuti dalla mafia.
Vito Pipitone diventa capo lega della ConFederterra. Capisce come Placido Rizzotto, Salvatore Carnevale, Accursio Miraglia – che insieme a lui hanno pagato con la vita la loro scelta di campo – che bisognava iscriversi al sindacato, che c’era bisogno di una forza organizzata capace di combattere contro lo strapotere dei latifondisti e far rispettare le leggi di riforma agraria che stavano per essere varate dal nuovo Parlamento. Anche Vito cade sotto il piombo della malavita organizzata come i contadini che erano andati a festeggiare il Primo Maggio a Portella delle Ginestre massacrati dalla banda di Salvatore Giuliano impedendo loro di assaporare i primi frutti della libertà conquistata dalla Resistenza.
Ce n’è abbastanza per trarre molte riflessioni, anche oggi, da questa ricorrenza tutt’altro che formale. Con questa commemorazione il suo lascito umano, politico, culturale e di combattente per la giustizia e la difesa dei più deboli e degli ultimi io continuo a sperare che non andrà perduto. Altri marsalesi hanno proseguito la sua battaglia. I braccianti, gli operai e i contadini, sulla scorta della sua iniziativa, avevano scelto la strada della cooperazione, della costituzione delle leghe che si era rivelata indispensabile durante il tempo della riforma agraria e le occupazioni delle terre.
Ricordo Gioacchino Marino, Pino Pellegrino, Gaspare Li Causi e tanti altri esponenti dei partiti della sinistra e del sindacato, che sono venuti dopo di lui, riprendere in mano la sua bandiera per completare il processo di riscatto, di emancipazione e di liberazione che ancora purtroppo aspetta di essere in pieno realizzato.
Ps: Mi pare utile citare a tal proposito il libro curato da Daniele Nuccio “Quando i jurnateri erano giganti – dialogando con il compagno Li Causi – Tatzebao Edizioni).
Filippo Piccione