Sull’aborto, sul dolore, sulla complessità, sul rispetto

Chiara Putaggio

Sull’aborto, sul dolore, sulla complessità, sul rispetto

Condividi su:

venerdì 14 Agosto 2020 - 08:58

Ci sono violenze annidate negli occhi di chi guarda, ci sono violenze vestite da buone maniere, ci sono violenze che diventano lapidi con nomi di fantasia. Per parlare di aborto occorre una gigantesca competenza e una immensa umiltà. Sento il bisogno di precisare che ogni volta che una donna abortisce le vittime sono due. Una vita che non è stata data alla luce e quella di una donna che immancabilmente soffre. Non si tratta mai di un evento indolore. Non può esserlo perché ogni parto, anche quello più felice, conserva un dolore che definirei biblico. Si tratta di una pratica invasiva, necessariamente invasiva, che sicuramente, per sempre, si imprime nella vita di una donna. Ma quello che va indagato è anche il prima. Quanto dolore subito, provato sia legato alla decisione di compiere un aborto. Quante privazioni di libertà ci siano alla base.

Avevo 19 anni e mi trovavo a Palermo, all’università. Nell’appartamento a fianco a quello in cui abitavo con altre studentesse ce n’era un altro dove abitavano tre ragazze della provincia di Agrigento. Una di loro spesso ospitava una sua cugina, una ragazza molto bella che chiamerò Alice. Era alta, con bellissimi capelli biondi e occhi chiari. Una carnagione di seta. Una di quelle ragazze che non dimentichi, una di quelle che anche con jeans e maglietta ti colpisce. Ebbene la famiglia di Alice era molto, diremmo, ritirata. Lei non poteva abitare a Palermo. Veniva solo per gli esami e raramente restava a dormire dalla cugina. Si innamorò, fugacemente riuscì a sfuggire al controllo familiare e rimase incinta, nel frattempo la vita andava avanti e c’erano esami universitari. Lei veniva periodicamente, ma per mesi non la vedemmo. Sapemmo che aveva abortito. Non aveva avuto il coraggio di dire a casa che era incinta e aveva preso quella decisione perché i suoi non avrebbero capito, né accettato. Dopo qualche mese tornò a Palermo per un esame, ma non era più lei. Si era tagliata i capelli… da sola. Sembravano rosicati. Come quelli che in certi film vediamo sotto i veli delle suore monacate a forza. Passarono altre settimane e si seppe che Alice si era tolta la vita. Non so se l’abbia fatto per via dell’aborto o se per la libertà che le era stata negata al punto da smorzarle il coraggio.

Scrivo questa storia per dire che la questione è enorme e che non è certo un registro che ha tanto l’aspetto di un dito puntato contro la colpevole a dare una risposta. Io sono fermamente convinta che ogni donna risolta, libera, consapevole, piena di rispetto per sé e di opportunità non abortirebbe, perché l’atto stesso fa male, anche a lei. Ma se lo fa è perché questa società, tutta, non ha ancora abbracciato la parità e non serve nessun monito, nessuna lapide che riporti nomi di fantasia perché la fantasia l’abbiamo strappata via a chi come Alice, avrebbe voluto poter scegliere che vita vivere molto prima di essere incinta.

Masculiddro piruzzo d’addrauro porta lu fruttu e puro lu ciavuro, fimminazza pirazzo di chiuppo un porta lu ciavuro e mancu lu frutto. Questo tremendo detto siciliano dà il metro del viaggio lungo ancora da compiere. Ricordo un bellissimo cortometraggio di Katia Regina e Massimo Graffeo dove una ragazza, Maria, fu impiccata – atto fatto poi passare per un suicidio – dai familiari perché era incinta. La vergogna dell’atto sessuale compiuto era maggiore del valore della vita. È lo stesso atteggiamento becero di chi si professa sentinella in piedi contro la legge Zan. Continuiamo a scandalizzarci innanzi a paventate pratiche sessuali, ma l’identità è complessità e richiede rispetto e attenzione.

Condividi su:

Un commento

  1. Gentile Chiara…
    Ho letto il tuo articolo profondo, certamente carico di emozioni che sono vere perché raccontano vita ma, perdona la franchezza delle parole che ti rivolgo, lo ritengo molto, molto di parte.
    So perfettamente di cosa parliamo quando si tratta di aborto… ho studiato e studio il fenomeno in tutti i suoi aspetti, sociali, psicologici, medici, etici, umani… ma soprattutto ne conosco le conseguenze per quanto lascia nel cuore delle donne che hanno abortito, volontariamente o perché costrette, per malattia del feto o per limiti dettati dal contesto sociale che avrebbe dovuto accompagnarle, per paura di esser mamma (e non di una donna qualsiasi) e per mille altre ragioni sempre inaccettabili se pensiamo che si tratta di uccidere un bimbo…
    E tu sai che non parlo da una cattedra, ma che frequento un “luogo” in cui la coscienza è spinta a fare i conti con se stessa e con Dio e, per quante e quali siano le ragioni che hanno spinto a tale gesto se da un lato lo condannano dall’altro accolgono, aiutano, asciugano lacrime e, paternamente, sostengono.
    Sicuramente la ragazza di cui parli non ha trovato in chi le stava accanto il sostegno adeguato. In Italia, una ragazza che “ha fatto un errore” (sempre che di errore si debba parlare quando si tratta di vita umana!) può, mettendo al mondo una vita, una vita umana, una persona, non riconoscerla civilmente e darla in adozione: troverebbe file interminabili di coppie pronte ad accogliere quella piccola vita.
    Ma, perdonami, proprio non capisco perché tanto rumore per non permettere ad una donna, ad una coppia, di avere un luogo dove andare a pregare, omaggiare, visitare, quel bambino che pur restando tale, non ha potuto far sentire il proprio vagito perché la sua esistenza non ha superato i nove mesi…
    Mi chiedo, ti chiedo: perché?
    Quante donne vorrebbero avere un luogo dove poter seppellire quel corpicino e non sapere – perché di questo si tratta – che il bambino che hanno avuto per qualche settimana o mese che sia nel grembo, non sia finito tra i rifiuti speciali dell’ospedale o della clinica di turno in cui è stato separato dalla propria mamma.
    Sì, perché anche se non si vuole accettare, la ragazza che concepisce quello che molti tengono a definire il “prodotto del concepimento”, il “materiale abortivo” o come lo si voglia definire, è già una mamma!
    Non si diventa mamma quando il bimbo pronuncia quella dolce parola!
    Si è mamma già quando quel nuovo esserino, per me e per milioni di scienziati una persona, si forma nel suo grembo!
    Tu scrivi “Sull’aborto, sul dolore, sulla complessità, sul rispetto”… ebbene, allora bisogna anche rispettare quelle mamme che hanno nel cuore il desiderio di visitare i loro “bimbi mai nati”. Al cimitero di Marsala c’è un luogo dove sono sepolti i bambini morti, piccoli a volte di pochi mesi e di pochi anni stroncati alla vita per tante inaccettabili ragioni: a loro spesso rivolgevo la mia preghiera passando da quelle parti certo che, come piccoli angeli, mi avrebbero aiutato nel cammino della vita. Penso che ogni mamma dovrebbe avere questa possibilità: un modo per elaborare un lutto, come dicono i “tecnici”.
    Se poi una mamma non ne vuole sapere e preferisce che non ci sia un registro… sarà pure libera. Ma perché libera non deve essere la mamma che vuole poter visitare quel piccolino che anche per poco ha portato nel grembo?
    E permettimi un’ultima cosa: perché definisci “atteggiamento becero” quello di chi manifesta contro un progetto di legge? Mia cara, forse mi sono perso un passaggio, ma davvero bisogna offendere se non si è d’accordo? Anche per me il DdL Zan è un’offesa… all’Italia però e agli italiani, perché vuole negare la possibilità di pensarla diversamente, perché di questo si tratta! E non solo!

    0
    0

Rispondi a Enzo Vitale Annulla risposta

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Commenta