Se devo scegliere una parola per descrivere il periodo di quarantena che abbiamo vissuto e in parte stiamo ancora vivendo, scelgo la parola greca tefteri.
Tefteri, per i greci, è il libricino su cui il bottegaio, il salumiere, il macellaio, il panettiere e in generale il negoziante di generi alimentari segnano i debiti, i crediti, i conti in sospeso. Ecco come ho immaginato questo tempo: è il tempo dei conti in sospeso.
Quello che abbiamo creduto una sospensione, una cesura dal nostro mondo, è stata in verità come una lunga coda del tempo e del mondo che abbiamo vissuto dagli anni novanta in poi.
È come se in questi anni noi ci fossimo limitati a prendere nota di debiti e crediti e poi avessimo riposto il tefteri nel cassetto sotto la cassa. Fatto l’incasso giornaliero, pagati i fornitori e le bollette in scadenza della giornata, prelevato dalla cassa qualcosa per noi, per le nostre esigenze quotidiane, ce ne tornavamo a casa, rimandando a tempi migliori, a umori migliori, il momento di guardare la situazione nel suo insieme. Con l’emergenza dettata dal coronavirus, quel libricino siamo stati costretti a tirarlo fuori dal cassetto, prenderlo in mano, guardarci dentro, tirare le somme. Pensavamo che la situazione non fosse rosea. Ma ci contentavamo di un’idea vaga, il nostro miglior alibi. Ma una volta iniziato a fare i conti con le cifre, i nomi dei creditori, la realtà dei debitori, abbiamo iniziato a capire che era molto peggio di quanto immaginassimo. Ci pensavamo fragili, ci siamo ritrovati inconsistenti.
In questi giorni di quarantena, fermata la quotidianità, i suoi impegni, i suoi riti, i suoi circuiti, la realtà ci è apparsa straniante: guardavamo le cose di sempre eppure ce ne sfuggiva il senso. Nei primi giorni di quarantena, per esempio, girando in mascherina e occhiali appannati per le strade semideserte, mi è venuto in mente quello che diceva Diawnè, un cantastorie proveniente dall’Africa sud-sahariana, del suo primo viaggio in una città occidentale: “Per strada si vedono ogni tanto uomini o donne che vanno in giro legati a un cane […] e ogni tanto gli parlano”. In quei primi giorni si vedevano solo uomini e donne da soli e i loro cani. Nessun genitore con bambino in giro. E ci è sembrato normale, da subito. Direi matematico: cani sì, bambini no.
E la sensazione, in questo periodo, è stata quella che gli impegni, i riti, i circuiti di cui era fatta la nostra quotidianità alla fine non fossero che un sistema in cortocircuito. Che l’interpretazione che Diawnè aveva dato a ciò che vedeva per la prima volta per le strade di una città occidentale non era frutto di un suo fraintendimento, ma uno sguardo lucido sulla realtà. A fraintendere eravamo stati noi.
La percezione chiara che quello che abbiamo visto attraverso la lente deformante dell’emergenza durava da anni, era la realtà, era frutto di un cortocircuito delle nostre vite e delle nostre società che aveva radici lontane e non un effetto estemporaneo dell’emergenza.
Era da anni che ci facevamo portare a spasso dai nostri cani. Ecco la verità.
È da anni che per strada facciamo più moine e ci fermiamo più volentieri con il padrone di un bel cane, piuttosto che con un giovane genitore col passeggino. È da anni che hanno più diritto di cittadinanza i bisogni dei nostri amici a quattro zampe piuttosto che quelli dei bambini.
E l’assenza di un’idea, di uno spazio, di una profilassi che tenesse conto delle esigenze dei bambini non è stato l’unico segnale che fosse arrivato il tempo di tirare le somme.
È da anni che abbiamo la natalità col segno meno e manca una politica seria per la famiglia. È da anni che i bambini li coccoliamo e proteggiamo nel privato e nel quotidiano, dentro le nostre case, ma non riusciamo a progettare spazi condivisi e una strategia comune per il loro futuro.
Così come da anni mancavano una visione di sistema e una strategia per la sanità, per la ricerca, per il welfare, per l’industria, per il commercio, per l’import e l’export, per il sistema fiscale, per i precari, per le partite Iva, per la scuola, per l’università, per l’efficentamento tecnologico della pubblica amministrazione, per il sistema giudiziario, per il sistema carcerario, per la selezione della classe dirigente, per l’agricoltura e la filiera alimentare, per gli extracomunitari, per i rifugiati, per la cultura e le arti, ecc.
E in questi giorni – tra infrastrutture sanitarie fatiscenti e sale di rianimazione insufficienti, case di cura per anziani trasformate in cimiteri, irreperibilità di mascherine e guanti per il personale sanitario, il crash del sito Inps il giorno in cui si dovevano caricare le richieste di cassa integrazione, la cassa integrazione che non arriva, i bonus per le partite Iva che non arrivano, i prestiti bancari che non arrivano, la scarcerazione di capi mafia, la didattica a distanza nelle scuole che ha dimenticato completamente i disabili e non ha tenuto conto delle differenze tra chi un collegamento a internet se lo può permettere e chi no, i raccolti che rimangono nei campi perché gli extracomunitari non possono arrivare – ce ne siamo accorti.
Ci siamo accorti che più che segni dell’epidemia sono nodi da sciogliere che vengono da lontano.
E poi, su tutto questo, si è stagliata la parola “congiunti”. Una parola tecnica, tra il testamentario e il notarile, ma non tanto inusuale. Anche simpatica a dire il vero, con quel vago sapore di ricordi scolastici e gente che incontri solo ai matrimoni.
Solo che ora era messa lì, dallo Stato, a recintare le persone che possiamo andare a vedere nel primo periodo post quarantena. Ci siamo accorti che le parole possono fare da muri oltre che da ponti tra noi e il mondo.
Ed ecco che ci accorgiamo che “uno NON vale uno” neanche tra congiunti. Che le regole, le procedure, i riti vanno riempiti di intelligenza umana, per non risuonare come gusci vuoti. E che ci dobbiamo riappropriare del nostro tempo, delle nostre vite e forse un modo è ricominciare a dare importanza alle parole. Lo dice meravigliosamente uno dei cantautori che più ho amato in questi anni, Gianmaria Testa, che scrive:
“Povero tempo nostro/ povere fatiche/ povera la Terra intera/ che tutte intere le patisce/ povero tempo nostro/ e poveri questi giorni/ di magra umanità/ che passa i giorni e li sfinisce […]
Lascia che torni il vento/ e dentro al vento la stagione/ di quando tutto appassirà/ per chi bestemmia le parole”.
Già, povero tempo nostro. È arrivato il momento di fare i conti, di uscire il tefteri dal cassetto e tirare le somme, con la consapevolezza che non basta dare un nome alle cose per risolvere il problema. Lo abbiamo scoperto col virus: gli abbiamo dato un nome, lo abbiamo censito, lo abbiamo isolato ed è ancora lì. Come “congiunti”, “autocertificazione”, “Europa”, “responsabilità”, ecc.
In questi giorni ci siamo domandati se da questa esperienza ne usciremo migliori o peggiori. Come se peggiorare o migliorare fosse un effetto automatico, un riflesso di quello che ci succede attorno. Come se non dipendesse da noi.
Quando, invece, dipende da noi. Siamo noi che dobbiamo scegliere se – di fronte alla saracinesche chiuse dei negozi che non riapriranno, alle bollette che continueranno ad arrivare, ai mutui e agli affitti che continueranno a correre, alle migliaia di persone che perderanno il posto di lavoro, alla crisi economica che lascerà per strada tantissima gente – vogliamo continuare a correre senza una meta, sempre attorno allo stesso circuito bruciato oppure cercare di cambiare le cose.
Preso il tefteri, fatti i conti, tirate le somme, spetta a noi agire per trovare la quadra.
Parafrasando una scritta su un muro apparsa nella Grecia appena investita dalla crisi economica, possiamo dire che spetta a noi scoprire se siamo gente così povera che tutto quello che avevamo erano i soldi.
P.s.: questa era l’ultima “Cartolina dalla Quarantena”. Ci vediamo fuori. Intanto Cari saluti