Continua in città il dibattito sui recenti episodi di bullismo e baby gang che hanno visto protagonisti alcuni giovani marsalesi. Tra coloro che conoscono maggiormente sul territorio le insidie che accompagnano l’attraversamento della “linea d’ombra” dall’adolescenza alla maturità c’è sicuramente Salvatore Inguì, coordinatore provinciale di Libera ma soprattutto assistente sociale e coordinatore della sezione staccata dell’Ussm, l’ufficio che si occupa dei minori dell’area penale. I locali del centro di Sappusi costituscono da anni una di quelle piccole quanto preziose roccaforti in cui si manifesta la presenza dello Stato, dove assistenti sociali e operatori conducono un lavoro quotidiano di recupero di giovani che per varie ragioni rischiano di confluire tra le milizie della criminalità organizzata.
E’ corretto parlare di allarme bullismo a Marsala?
L’allarme c’è sempre. Non bisogna abbassare mai la guardia sullo stile di vita dei nostri giovani. Dal mio osservatorio il dato più allarmante è l’assoluto vuoto esistenziale. Quando gli chiediamo come trascorrono le loro giornate la risposta è più o meno sempre la stessa: “Non vado a scuola, non lavoro, sto con gli amici e gioco alla Playstation”. Sono ragazzi spesso già esclusi dal circuito scolastico e non ancora inclusi in quello del lavoro, sono privi di stimoli e di interessi importanti, sia da un punto di vista sportivo che associativo. L’uso e l’abuso di sostante stupefacenti, il gioco d’azzardo o la violenza per noia, non sono che conseguenze di quello che è il vero nodo: come si interpreta la vita. E’ così da sempre, ma è anche vero che oggi ci sono delle esagerazioni.
Ma le denunce sono in aumento o in diminuzione?
I dati ci dicono che le denunce di reato sono diminuite. La domanda che ci stiamo ponendo è se c’è realmente una contrazione dei fatti di reato o se sono diminuite le denunce per sfiducia nel sistema giustizia. In diversi momenti ho pensato a questa seconda ipotesi, anche perchè sento gli operatori di polizia o i cittadini lamentarsi perchè si ritrovano soggetti più volte denunciati, dopo qualche giorno, sotto le loro case. D’altra parte, se non ci sono denunce, il nostro servizio sociale non può intervenire. Il nostro ruolo è quello di seguire i minori dopo le denunce, ma avendo gli uffici a Sappusi abbiamo conosciuto diversi ragazzi a rischio e visto tante situazioni di malessere. Per questo, da alcuni anni, oltre alle attività con i minori dell’area penale portiamo avanti altre attività di prevenzione.
Cosa cambia tra gli episodi di violenza giovanile che ci sono sempre stati e quelli che oggi vengono immortalati con gli smartphone e finiscono sul web?
Cambia che la notizia non è più il fatto in sé, ma il modo con cui viene riportato. Oggi ogni cosa che accade ha un suo palchetto video, o tramite i telefonini o tramite le telecamere di videosorveglianza. Il mio timore è che la spavalderia sia legata proprio alla diffusione, alla possibilità, per ragazzi che vivono nell’alienazione, di trovare uno strumento che in qualche modo celebri le proprie gesta. Ad ogni modo il problema più grande per noi non sta tanto nell’aggancio di questi ragazzi, ma nella reale possibilità di aiutarli a fare una progettazione di media e lunga scadenza. Se proponiamo loro un progetto che dura una settimana o un mese, sono disponibili a partecipare. Ma se gliene proponiamo uno che dura due anni, si tirano puntualmente indietro.
Veniamo alle cause: c’è chi dà la colpa alla famiglia, chi alla scuola, chi alla politica…
Non credo che la causa sia solo una. Credo ci sia un concorso di cause. Alla scuola vengono chieste troppe competenze: non ci si può aspettare che il professore di matematica faccia anche l’assistente sociale, lo psicologo e magari il chiromante… Per quanto riguarda le famiglie, dobbiamo considerare che i ragazzi che arrivano da noi vengono tutti da nuclei con difficoltà economiche, ma anche interne o relazionali: alcuni non hanno mai conosciuto il papà o non lo vedono da anni perchè è detenuto, altri vivono con i nonni o gli zii. Nel frattempo sono scomparsi i luoghi di aggregazione, come le parrocchie o le associazioni, che in passato davano opportunità di incontro e confronto sia ai ragazzi che alle famiglie. I servizi pubblici ci sono, ma si va avanti secondo una logica frammentata, che non tiene conto dei bisogni globali dell’individuo. Nel complesso, sono tutte queste agenzie che in questa fase non hanno la capacità di gestire una serie di questioni. In definitiva, non mi sento comunque di dire che siamo davanti a un baratro e dico “no” ad allarmismi e stereotipizzazioni di tipo camorristico.
Si parla dell’effetto “Gomorra”, serie tv di successo che si dice possa influire sui comportamenti di tanti giovani…
Come dicevo, il rischio di emulazione c’è, soprattutto se facciamo diventare potenziali eroi i protagonisti di azioni negative. Anche i sistemi comunicativi hanno delle responsabilità in questo: se nelle cronache quotidiane venissero maggiormente valorizzate le buone azioni e le buone pratiche forse i giovani penserebbero che c’è di meglio da fare che riprendere col telefonino un coetaneo che ne picchia un altro o assistere alla scena facendo finta di nulla.
Si parla tanto del bullo, in effetti, ma ci sarebbe molto da dire anche sugli spettatori…
La sensazione è che vogliano semplicemente riempire 10 minuti della loro vita per avere qualcosa di cui parlare l’indomani. Ma dobbiamo anche dire che tutti loro sono carnefici e vittime al tempo stesso. Mamma e papà li hanno mai sollecitati a riflettere? Gli insegnanti hanno cercato di parlare con loro o hanno preferito promuoverli per liberarsene? Con questo, lo ripeto, non voglio puntare il dito contro un caprio espiatorio, ma evidenziare che c’è un’oggettiva corresponsabilità che ha a che fare con un’assoluta mancanza di capacità di visione. Non riusciamo a vedere le cose in un’ottica di programmazione, pensiamo a come consumare il nostro tempo nel giro di 24-48 ore. Non è però il “tutto e subito” del ’68, dove c’era una logica rivoluzionaria e di impegno civile. Qui si vuole “tutto e subito” perchè domani potrebbe non interessare più. In questo quadro, servirebbero genitori capaci di dire tre “no” di seguito: sarebbe già una prospettiva che educa alla frustrazione. Ma educare porta fatica e un concetto di amore responsabile. Dire sempre sì non è amore responsabile. Amore responsabile è saper dire di no.
Non è che sulle performance dei bulli e delle baby gang incide, soprattutto al Sud, l’idea che comunque questi giovani non vedono il loro futuro nella loro terra?
Non credo si pongano questo problema. La nostra città, poi, non è così brutta. Passo spesso dalla strada dove c’era il ristorante “La cozza pazza”, sul lungomare. Mi è capitato di vedere, nello stesso momento, a sinistra alcuni cittadini o turisti fermarsi a fotografare i fenicotteri rosa o le saline, a destra altri cittadini fermarsi a scaricare sacchi di rifiuti o addirittura vecchi elettrodomestici rotti. La fotografia di Marsala è questa. Non è colpa del sindaco o della politica, la discarica l’abbiamo creata noi con il nostro comportamento. Per questo dico che non mi sta bene che si dica: “Dovrò andar via, non c’è futuro, tutto fa schifo”… Vogliamo dare degli alibi? Temo che alcune analisi socio-antropologiche possano essere perversamente utilizzate per giustificare l’ingiustificabile. Servirebbero meno analisi sui social e più azioni concrete. Noi con la Libera Palestra Popolare di Sappusi abbiamo voluto fare proprio questo: l’abbiamo aperta a tutti e ci siamo sentiti dire dai ragazzi che volevano giornate e orari per i bianchi diversi da quelli per i neri. Ovviamente non abbiamo accettato. Adesso sono tutti assieme e i ragazzi del quartiere hanno eletto come loro leader tecnico Mamadou, un richiedente asilo guineano.