Arrival

redazione

Arrival

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lunedì 23 Gennaio 2017 - 19:09

Gioco non a somma zero”

Dodici oggetti non identificati, chiamati “gusci”, si manifestano nei cieli del pianeta terra, uno dei quali in Montana; la linguista Louise Banks viene incaricata di trovare un canale comunicativo con queste forme aliene…

Questa è la premessa al nuovo film del regista canadese Denis Villeneuve, che ci ha abituati molto bene con una filmografia densa e mai banale; suoi sono i bellissimi “Polytechnique” ed “Incendies”, suoi sono “Enemy”, adattamento cinematografico da “L’uomo duplicato” di Saramago, “Prisoners” e “Sicario”.

L’aspetto fantascientifico in “Arrival” è solo un pretesto narrativo che ci interroga sull’indole bellicosa dell’uomo che cerca un ponte comunicativo per fraintendere l’ignoto e chiude le comunicazioni con i propri simili; seppur non approfondite le scene di delirio e di aggressività scatenate dalla paura dell’Altro mi hanno colpito molto e continua a turbarmi questo ritratto fedele di umana disumanità che il regista ci costringe a guardare negli occhi.

Dopo un primo tempo lineare, forse un po’ lento rispetto alle aspettative e per certi versi anche estraniante, basato sull’approccio linguistico per poter creare un repertorio di segni da decodificare che permettano ai nostri protagonisti di poter comunicare con “Tom e Jerry”, il secondo tempo arriva a ricordarci che questo è un film di Villeneuve e che la linearità non è la caratteristica giusta, inizia così uno sviluppo circolare, come circolari sono i segni usati dagli eptopodi alieni (che ci ricordano le visioni che invadono la città in “Enemy”), come circolare è l’esistenza stessa e la mente illuminata di Louise, la circolarità tanto cara a Kubrick in “2001: odissea nello spazio”, che viene omaggiato dalla scelta del nuovo monolite, cambiato nella forma ma non nel colore, che resta sospeso sul paesaggio come un sonaglio di Magritte.

Sarebbe riduttivo parlare di fantascienza per questo film, c’è filosofia, c’è il mettere l’accento sull’importanza della comunicazione, c’è poesia, c’è una colonna sonora perturbante ed alienante, funzionale e di rara bellezza, c’è critica sociale, c’è la voglia di andare oltre senza paura contrapposta alla paura distruttiva più tipica dell’uomo e c’è una bravissima Amy Adams a raccontarci tutto attraverso i suoi occhi.

Meno spettacolare di “Interstellar” di Nolan, ma più vicino alla poetica di Malick, Villeneuve ci regala un film non solo da vedere ma su cui sorprendersi a pensare.

Daniela Casano

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