La categoria di pensiero che più si adatta ai nostri tempi è il “meglio di niente”. Il Parlamento approva la legge sulle unioni civili? Non è la migliore riforma possibile, ma…meglio di niente…La Regione dopo tanti stenti approva il testo definitivo sulla riforma delle province? Si poteva fare di più, si poteva fare prima, ma…meglio di niente…Rai Uno manda in onda una fiction obiettivamente mediocre su Felicia Impastato? Il cast era pietoso, la narrazione fragile, ma almeno si è parlato di mafia in prima serata sulla rete ammiraglia del servizio pubblico senza scomodare Salvo Riina…anche qui…meglio di niente…Marsala ha finalmente il suo Monumento ai Mille? Non ha la magnificenza del progetto originario di Emanuele Mongiovì, è arrivato con troppi anni di ritardo, ma…anche qui…il buon senso ci porta a pensare che sia meglio di niente.
In fin dei conti, i nostri tempi soffrono ancora i postumi dell’11 settembre, della crisi del 2008 e lo vediamo anche nelle nostre scelte individuali o familiari. Quando le cose vanno male, resiste chi mostra capacità di adattamento. Lo diceva Darwin e ce lo siamo sentiti ripetere spesso in questi anni. Il problema è che il nostro immaginario risente della forza rappresentativa di un modello di benessere, più o meno reale, strutturatosi tra il boom degli anni ’60 e l’edonismo di plastica degli anni ’80. Dovremmo scrollarcelo di dosso, questo immaginario fasullo. Allo stesso tempo dovremmo coniugare il realismo con cui giocoforza ci troviamo a convivere con la capacità di guardare al di là del nostro presente. Ragionando, in questo territorio come altrove, su un nuovo immaginario verso cui tendere. Partire dal “meglio di niente” per ambire al “niente di meglio”. La vera sfida è questa. Altrimenti, finiremo davvero per morire lentamente. E l’Italia – e il Sud a maggior ragione – diventerà un luogo in cui nessuno immaginerà più di poter rimanere preferendo affidare ad altre terre i propri sogni.