Un tempo, si definiva élite l’insieme delle persone che rappresentavano la parte più colta e capace della società. Gradualmente questa concezione è andata mutando e il concetto di elite ha assunto una connotazione sempre più negativa, in contrapposizione a quella di popolo. Per tanti anni, tale dicotomia è stata rappresentata dallo scontro tra “padroni” e classe operaia, mentre negli ultimi 20 anni si è fatta strada una rappresentazione tendente a opporre, da un lato, chi gestiva il potere ed esercitava una certa egemonia culturale sul dibattito pubblico (le élites, appunto) e dall’altro tutti coloro che erano costretti a contare solo sulle proprie forze, non avendo santi in Paradiso.
Questo tipo di evoluzione concettuale non è sfuggita al mondo politico, che ha cominciato a proporre programmi e linguaggi capaci di interpretare quanto più possibile lo spirito del tempo, attraverso nuovi soggetti politici (il Movimento 5 Stelle in Italia, Podemos in Spagna) o partiti tradizionali che hanno abbracciato narrazioni sovraniste (i Repubblicani di Trump in America, il Fronte Nazionale di Le Pen in Francia, Fidesz di Orban in Ungheria). Anche la destra italiana, dopo un primo momento di disorientamento, ha seguito questo filone che ha portato prima la Lega (con Matteo Salvini) e poi Fratelli d’Italia a diventare i partiti più votati dell’arco costituzionale.
Un anno e mezzo fa, quando il centrodestra stravinse le elezioni, Giorgia Meloni si presentava come l’underdog, l’outsider che, senza santi in Paradiso e partendo da una famiglia problematica, era riuscita a scalare il sistema con le proprie forze, restando a distanza di sicurezza dai governi di larghe intese che avevano gestito con difficoltà l’emergenza Covid. Questo tipo di narrazione aveva portato Fratelli d’Italia, come in precedenza la Lega, a raccogliere consensi nei quartieri popolari e tra i figli di quella classe operaia che a lungo avevano rappresentato l’elettorato di riferimento della sinistra.
A poco meno di 16 mesi da quel trionfo, appare già chiaro che il governo Meloni non rappresenta affatto quegli outsider a cui sembrava ammiccare inizialmente, ma l’establishment tradizionale: smantellati il reddito di cittadinanza e il superbonus (provvedimenti bandiera del M5S), ha definitivamente gettato la maschera con la riforma costituzionale che vorrebbe introdurre l’elezione diretta del Presidente del Consiglio (ridimensionando le funzioni del Capo dello Stato), con la legge bavaglio che limita fortemente le cronache giudiziarie, e adesso, con la riforma giudiziaria che mira a cancellare l’abuso d’ufficio. In mezzo, la gravissima vicenda dei morti di Cutro, l’occupazione della Rai con le solite liste di proscrizione verso i personaggi non graditi, l’atteggiamento tollerante nei confronti delle manifestazioni neofasciste, i tagli in bilancio ai servizi pubblici (dalla sanità ai centri antiviolenza) il progetto – mai abbandonato – dell’autonomia differenziata a beneficio delle ricche regioni del Nord.
Insomma, come avvenuto già con Berlusconi, la destra italiana ha trovato una persona che gode del consenso popolare per fare ciò che ha sempre fatto: proteggere il potere, aumentare le diseguaglianze, limitare la libertà di espressione, spingere indietro le minoranze che reclamano più diritti civili o sociali. Nulla di nuovo, dunque. L’errore vero è stato pensare che potesse fare altro.