Ai magnifici tempi … della cazzusa

Gianvito Pipitone

La Corda Pazza

Ai magnifici tempi … della cazzusa

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sabato 25 Giugno 2022 - 08:40

Ai tempi ‘ra cazzusa” (gassosa) è un’espressione dialettale siciliana usata per indicare un periodo imprecisato di qualche tempo fa: non troppo lontano da perderne traccia e non troppo vicino da non doverne chiarire i contorni. Le frasi “sei rimasto al tempo della cazzusa”, oppure “questo marchingegno si ricorda i tempi della cazzusa” ci aiuteranno forse a mettere meglio a fuoco il contesto di utilizzo.

È una bella espressione colorita che ci riporta indietro con la memoria ai tempi in cui, a partire dagli anni ’60, si registrò nell’isola un clamoroso boom commerciale dei Soft Drinks … a chilometro zero, diremmo ora.

Fu così che, grazie ad una manciata di aziende siciliane, come la palermitana Partanna, fondata nel 1890, o la Tomarchio che vide la luce ad Acireale nel 1920, insieme alla più recente ragusana Polara (1953), ogni bottega, bar o taverna si riempirono di bottigliette di Partannina, o di “gassosa con la pallina” (particolare prodotto della Tomarchio) che spesso venivano consumate mischiate a due dita di vino bianco.

Il successo di queste bevande a base di acqua, zucchero e acido citrico (limone) fu tale che proprio l’azienda Polara (che nel frattempo acquisì Partanna) negli anni ‘80 arrivò produrre all’incirca centoventimila litri al giorno tra gassose e le sue diverse declinazioni spuma, chinotto, aranciata etc. che trovarono sbocco sia sul mercato italiano che su quello internazionale.

Tutto perfetto, fino a quando anche sull’isola non si fecero strada i due colossi americani dell’industria dei Soft Drinks: il gruppo Pepsi e il gruppo Coca Cola, che stavano ormai completando la monopolizzazione del mercato del mondo occidentale con i loro sottobrand nella categoria “gassosa”: rispettivamente Seven Up e Sprite (sbarcata in Italia nel 1981). Il grande capitale che tutto fagocita…

Ecco, fu quello all’inizio degli anni ’80, credo, il periodo di massimo splendore delle cazzuse nostrane, a cui ci si riferisce in quell’espressione idiomatica dialettale, non senza un retrogusto pieno di velata nostalgia. Si registrò infatti allora l’impennata dei consumi di soft drink che presero ad allietare regolarmente non solo le domeniche o i momenti di festa dei siciliani, ma divenendo un’abitudine ormai giornaliera di tante e tante famiglie siciliane. Quando non solo fra una Pasta a’ ffurnu o una Grigliata di sasizza, ma anche con un ordinario piatto di “pasta cchi sardi” spuntava fuori, immancabile ormai sulle tavole imbandite, la bottiglia di cazzusa (nel palermitano ‘azzusa”) a quei tempi esclusivamente condizionata in vetro trasparente da 1 litro. Il più delle volte meno gasata e meno dolce della concorrenza americana e tendenzialmente con un retrogusto di limone surmaturo in più, marchio di fabbrica delle locali versioni.

Non c’era poi occasione migliore per noi bambini, a quei tempi, durante i lunghi e movimentati banchetti nuziali, che approfittare di un controllo parentale più lasco per tuffarci in questo inaspettato e inarrestabile flusso di cazzusa. Increduli di tanta disponibilità e di altrettanta indulgenza, durante i “matrimoni” ci gonfiavamo come ciaramelle fino a che la cazzusa non tracimasse letteralmente dal naso, fino a che i nostri occhi non lacrimassero cristalli di CO2 e finché il nostro stomaco non si lasciasse devastare da sommovimenti tellurici ed incontrollate attività eruttive. Il tutto, fra una corsa e l’altra, sudaticci e sfatti in volto, inseguendoci fra i tavoli della scintillante sala banchetto, tirata a lucido per l’evento.

Era lì che affrontavamo le gimkane più spericolate virando in mezzo ai camerieri e avendo cura di non inciampare contro i cavi delle casse-spia del complesso musicale che sembravano spuntare da ogni angolo della sala.

A riposo poi ci ritrovavamo di fronte al palchetto dell’“aquestra” con il bicchiere di cazzusa in mano e gli occhi “sghiddati” sospesi nel vuoto, imbambolati ad osservare le mirabolanti evoluzioni dei musicisti.

Era in quel contesto che il batterista diventava automaticamente l’incontrastato eroe della nostra serata. Eccentrico e singolare animale da palco, il batterista di liscio anni ’80, formava quasi un tutt’uno con la pedana: stuzzicadente costantemente in bocca, occhiaie da notti insonni, canotta nera attillata a svasare su una classica pancetta da birra, mentre fra un brano e l’altro rubava due tiri da una sigaretta costantemente accesa che si affrettava a riporre incastrandola nella staffa del rullante. A lui invidiavamo specialmente il lungo capello riccio che a fine serata diventava ormai simile ad una lunga coda di volpe spiaccicata sulle tempie ormai sfrondate. In una parola, un Mito.

El Colorado, Delfino e sala trattenimenti Paradise. Nomi che ancora oggi a Marsala evocano i “grandi eventi” di quel tempo glorioso che fu. Negli anni ’80 sembrava che le persone non avessero altro di meglio da fare che sposarsi. A decine le cerimonie a cui si veniva automaticamente invitati ogni anno. C’era sempre il figlio di qualche non ben precisato parente o amico di papà che decideva di convolare a nozze. Ed è per questo che le Sale Trattenimenti, come imparammo a chiamarle in quel periodo, sembrarono trasformarsi nella nostra seconda residenza.

Non vi era persona nel marsalese che a quei tempi non sapesse declinare di ciascuna di queste Sale: pregi e difetti del personale, eccellenze e lacune della cucina, aneddoti e maliziose curiosità sui proprietari o sui gestori. Il tutto incorniciato però dal rispetto dovuto alla magica atmosfera creata da questi “luoghi incantati“, capaci di tramutare il sogno in realtà: una festa-evento che si rinnovava ad ogni occasione e che strizzava l’occhio particolarmente a noi bambini, ammaliandoci con i suoi lustrini, le sue paillettes e le posticce sciccoserie.

Tutto quello che, nell’immaginario collettivo del Marsalese medio, sembrava corrispondere a quanto di più vicino aveva cominciato a predicare l’allora neonata Fininvest, da Milano. Da dove un certo Silvio Berlusconi, ben addestrato alle logiche di mercato, aveva iniziato a vendere “solide realtà” ad un pubblico televisivo via via sempre più cedevole e malleabile: false promesse, lusinghe e mendaci aspettative.

Ora, senza voler qui addentrarmi in particolari che tirerebbero la discussione per le lunghe, possiamo solo abbozzare che è nei primi anni ’80 che si sono probabilmente buttate le basi per una sotto-cultura del nostro paese, cinica, materialistica e incentrata all’ auto-soddisfacimento, deriva per la quale oggi paghiamo un conto salatissimo. Il resto sembra lo abbiano fatto ultimamente le storture della “tecnologia”, con i social media spesso ridotti a poveri strumenti votati all’autocelebrazione egotistica, all’ autoincensamento e alla definitiva sconfitta della ragione. Ma è evidente che è un discorso molto lungo e complesso…E noi qui siamo ormai abbondantemente al di fuori dal seminato, vagando in un territorio che oltre ad essere scivoloso è anche minato.

Tanto meglio tornare ai bei tempi della cara e rassicurante cazzusa della nostra infanzia che, per quanto meno dolce, imperfetta e forse un po’ sgasata rispetto a quella dei competitors americani, nonché talvolta risultasse” appigghiata” dall’odore di stantio, rimaneva pur sempre la più genuina sulla piazza. La nostra preferita. Con buona pace della Coca Cola.

Gianvito Pipitone

La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri

L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.

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