L’8 e il 9 giugno si vota per cinque quesiti referendari. Com’è noto, si tratta di tematiche legate al mondo del lavoro e al diritto di cittadinanza dei migranti. Temi importanti, che teoricamente dovrebbero mobilitare la maggioranza degli italiani, a prescindere dalle idee politiche. In realtà, ancora una volta, uno strumento nobile come il referendum rischia di infrangersi di fronte allo scoglio del quorum da raggiungere per considerare valida la consultazione popolare. Le motivazioni sono le solite e chiamano in causa senz’altro una certa disaffezione del corpo elettorale verso l’istituto referendario, dopo gli entusiasmi suscitati dalle grandi campagne per i diritti civili degli anni ’70 e ’80 e quelle che all’inizio degli anni ’90 tradussero in realtà il grande desiderio di rinnovamento che accompagnò il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica. Negli ultimi vent’anni – se si eccettua la consultazione del 2011 su servizi pubblici locali e acqua bene comune – il raggiungimento del quorum è sempre rimasto un miraggio, un po’ perchè ormai l’affluenza alle urne è sempre più bassa (anche alle elezioni politiche), un po’ perchè l’informazione ha scelto di relegare il dibattito sui temi referendari in fondo alla propria agenda setting, incidendo in maniera evidente sulla consapevolezza e sulle motivazioni di chi dovrebbe andare a votare.
Restano due settimane e mezzo di tempo per provare a invertire il trend e ridare la giusta attenzione a questi temi, tenendo conto che parlare di licenziamento senza giusta causa, precarietà, sicurezza nei luoghi di lavoro o del dimezzamento dei tempi per ottenere la cittadinanza italiana significa ragionare sul presente e sul futuro del nostro Paese, sulle nostre vite e su quelle delle nuove generazioni. “Andare al mare”, come disse provocatoriamente Bettino Craxi all’inizio degli anni ’90 (incassando una clamorosa sconfitta) è un atteggiamento da élite della politica che mal si concilia con le conquiste democratiche del ‘900. Se proprio si ritiene che le cose vadano bene così come sono e che non sia necessario rendere il lavoro più sicuro e meno precario o che dieci anni siano un tempo congruo per ottenere la cittadinanza italiana, si abbia il coraggio di esprimersi per il “no”. L’astensione, pur legittima, è una scelta che somiglia tanto a un boicottaggio, che però non danneggia soltanto la proposta referendaria (o la parte politica che la promuove) ma l’intero impianto democratico del Paese.
Proprio per questo, mi piace pensare che in questi giorni che ci separano dal voto, tutti i sindaci della nostra provincia possano prendere la parola – da sinceri democratici – per lanciare un accorato appello ai propri concittadini affinchè vadano alle urne a votare. Si o No, per certi versi, poco importa. L’importante è andare.