Ciao Mik,
ti giro questa riflessione che mi è capitato di fare fra me e me l’altro ieri sera e che mi ha successivamente portato a prendere una decisione, se non dolorosa, piuttosto gravosa dal punto di vista etico e morale. Si tratta di quell’articolo che ti mandai in visione, dal titolo “L’eterno ritorno dei coglioni”. Ricorderai che in quel pezzo mettevo in luce alcuni aspetti politici all’indomani delle elezioni federali tedesche con lo spauracchio dell’avanzata del partito neo-nazista in Germania e non solo.
In genere, prima di sottoporre l’articolo alla pubblicazione (sono due o tre le testate online con cui collaboro ormai da anni), sono solito girarlo in visione ad un paio di amici fidati, di cui uno di professione “legale”, specialmente quando gli argomenti trattati, oltre ad essere spigolosi, si prestano ad interpretazioni particolarmente taglienti.
Ebbene, così come temevo, presa visione del pezzo, il mio amico mi ha consigliato di tirare fuori quell’unica frase che si riferiva alla premier Giorgia Meloni, pur senza citarla per nome. In realtà, si trattava di un breve accenno. Niente di particolarmente compromettente, dunque, che non valesse la pena di essere espresso in un pezzo giornalistico. Parliamo, cioè, di una posizione ancora ampiamente all’interno di un diritto di critica politica, dove non solo veniva rispettata la continenza verbale, ma anche la veridicità dei fatti di cui si faceva cenno.
Ma, se allora le cose si presentavano in questo modo, per quale motivo il mio amico, dall’alto della sua competenza e comprovata imparzialità, mi consigliava di espungere quell’accenno ironico e “velatamente sprezzante” nei confronti dell’indirizzo politico del governo Meloni?
Pur non chiedendogliene più conto, mi sono dato le mie spiegazioni, cercando di trovare all’ interno le risposte.
Forse che la presenza nello stesso articolo di nazismo, fascismo e coglioni, potesse in certo qual modo ingenerare un certo fastidio in qualcuno dei lettori? Probabile. “Certo…” mi rimproveravo, assolvendo mi “sembra quasi che tu te le vada a cercare le rogne! Che motivo hai di accostare la feccia nazi-fascista all’operato di governo del premier, tacciandolo di pesanti connivenze ideologiche…”
Dopo le cause, da buon empirista, ho cercato poi di concentrarmi ad un livello di ragionamento successivo: gli effetti. E sono uscite fuori altre considerazioni. Ed eccolo in tutto lo splendore il nodo gordiano: la cara vecchia pratica del ricorso alla mannaia della diffamazione. E a giudicare dai trascorsi negli ultimi anni, non sarebbe nemmeno la prima volta. Solo per richiamare alla memoria alcuni episodi che hanno visto di recente protagonisti delle vere e proprie celebrità del mondo accademico o dello spettacolo: Brian Molko, frontman dei Placebo, accusato di diffamazione per aver chiamato Giorgia Meloni “fascista”; il grande filologo Luciano Canfora, che aveva definito la Meloni “una neonazista nell’anima”, imputato per diffamazione (accusa poi rientrata); oltre a diverse denunce che i legali della premier hanno depositato, sempre per diffamazione della premier, nei confronti di giornalisti (Saviano), paparazzi (Corona) e testate giornalistiche (il Domani).
Ora, tornando a l’altro ieri sera, ammetto che era nelle mie intenzioni alludere proprio a questo concetto: fare cioè un parallelismo fra il galoppante neo-nazismo tedesco e il rigurgito dei neo fascisti italici, provando a mettere al centro delle responsabilità proprio chi, è deputata ad assumersele: Giorgia Meloni. Se non per la sua storia passata (che, ahimè, parla chiaro) anche e soprattutto per il suo atteggiamento ondivago nei confronti di quello che dovrebbe essere il pilastro fondativo della nostra costituzione: la professione di antifascismo. Sul cui argomento, spero di non sbagliare, lei (e soprattutto i vertici del suo partito), non mi pare abbiano mai espresso una posizione chiara e definitiva.
Eppure, alla fine della fiera, sai che c’è? investito da un gravoso dubbio amletico, ho preferito dare ascolto al mio amico legale e così, dopo aver corretto la frase e constatato che i due periodi dell’articolo funzionavano bene, rimanendo ben collegati, mi sono convinto che nessuno avrebbe potuto rimproverarmi di niente, specialmente di ciò che non avessi voluto dire.
Così al termine di questa lunga meditazione, mi sono detto fra me: “ma sì, meglio rimanere un po’ più cauti, d’altronde cosa mi costa?”. E consolandomi al pensiero di aver fatto la cosa più giusta, ci dormii sopra profondamente.
L’indomani mattina le nuvole erano state spazzate via da un cielo terso, color blu cobalto e, nonostante rimanesse per buona parte della giornata sullo sfondo un’impalpabile sensazione di latente fastidio, la questione si era ricomposta dentro di me, con un’auto assoluzione e una dichiarazione d’intenti: “d’ora in poi cercherò di affinare la strategia. Niente di quello che penso dovrà rimanere inespresso o, se non detto espressamente, almeno accennato”. Ma certo, continuavo a ripetermi come un mantra: “a partire da domani se la vedranno con me… Lo vedranno di che pasta sono fatto…domani glielo dico io…”
Chi non ha peccato, scagli la prima pietra, diceva qualcuno che se ne intendeva di filosofia. Ma capisci bene, mio caro, come di questi tempi particolarmente difficili, a forza di misurare gli accenti e di sottrarre pensieri, opere e missioni, potremmo finire per rimanere senza più argomenti. Solo gli occhi per piangere. Stammi bene.