Memoria e disincanto sono i due poli tematici che animano le pagine dell’ultima fatica editoriale di Diego Maggio, scrittore e avvocato marsalese, Della memoria e del disincanto. Annotazioni e immagini di vita siciliana, (Navarra editore, 2023, pp.128, 16€). Due termini che in apparenza si contrappongono: da un lato gli incanti della memoria, dall’altro il disincanto di chi fa i conti oggi con quella memoria rispetto al presente. In realtà questi due poli convivono nella scrittura, nel tono, nei temi e persino nelle scelte lessicali di ogni singolo pezzo di questo libro che ha una struttura composita, difficile da collocare sul piano dello statuto letterario, perché mescola e compendia sapientemente tanti registri e tanti generi sempre in bilico tra letteratura e giornalismo.
Il libro di Maggio appartiene a quella categoria, ormai consegnata alla migliore letteratura del Novecento, dei ‘non libri’, per dirla con un grande scrittore del secolo scorso, appunto, che si chiamava Giorgio Manganelli e che non amava troppo le etichette. Non è un romanzo, non è un saggio, non è un reportage giornalistico, ma forse grazie a una scrittura sempre sorvegliata, ricercata, mai sciatta o banale, è tutte queste cose insieme. In queste “annotazioni e immagini di vita siciliana” (come recita il sottotitolo), infatti, è evidente prima di tutto la cifra diaristica: un diario personale, a tratti anche intimo, ma che diventa “diario in pubblico” (per usare anche qui una definizione novecentesca), quando la memoria evocata nel titolo si fa memoria collettiva di una comunità (quella marsalese nella fattispecie), nonché memoria generazionale con tutti i bilanci emotivi che ne conseguono.
Ma nel libro c’è anche e soprattutto la narrazione di fatti luoghi e persone che passa attraverso una galleria di volti amicali e di affetti familiari. Di eventi traumatici come il terremoto del Belice e di antiche ma sempre nuove ritualità come la processione del Giovedì Santo. C’è poi la riflessione appunto disincantata lucida e amara, ma mai rassegnata, declinata con una cifra stilistica che Nicolò Messina, con grande precisione filologica, nella nota critica che fa da postfazione al libro, chiama “affondo saggistico”. Mentre in alcuni di questi pezzi siamo dalle parti dell’elzeviro, un altro genere giornalistico-letterario ormai pressoché estinto.
Memoria e disincanto, dunque, ovvero amore e disamore nei confronti di una terra in cui “è stato comunque bello vivere e che è forse il posto migliore per morire”. E in un tempo come il nostro in cui tutti hanno una storia da raccontare e una morale da esibire, quello di Diego non è un libro consolatorio né tanto meno ruffiano: non lancia messaggi edificanti, non cavalca i temi e le parole del momento per ammiccare al lettore semicolto. Persino nelle pagine in cui è evidente una forte passione civile, il libro non contiene proclami o ricette preconfezionate. E anche se ci sono alcune incursioni nel dialetto nostrano, nel segno ancora una volta della memoria e della nostalgia, l’autore non cede mai alla tentazione di parlare della Sicilia per stereotipi folclorici e luoghi comuni, né di iscriversi alla schiera interminabile dei mafiologi – per dirla questa volta con Leonardo Sciascia – che affollano gli scaffali di tutte le librerie italiane. Un libro, infine, che non è scritto nell’italiano standard di tanta narrativa (confessionale, familistica o ospedaliera) oggi molto in voga o di certa saggistica di attualità. Insomma, è un libro che non diventerà mai una fiction televisiva, e probabilmente non bazzicherà nei festival più o meno griffati di una certa produzione mainstream.