“Se qualcosa può andare storto, lo farà nel momento peggiore possibile”. La famosa e famigerata “legge di Murphy” riassume intuitivamente un fatto statistico noto: per quanto improbabile che un certo evento accada, per la legge dei grandi numeri, questo finirà molto probabilmente per verificarsi. E non solo si verificherà, ma gli effetti saranno devastanti e le soluzioni per risolverli dei meri palliativi. Per quanto priva di qualsiasi appiglio scientifico, la divertente teoria dell’ingegnere americano non manca di incrociarsi con gli accadimenti della realtà, dando così luogo a certa filosofia spicciola improntata ad un lucido e pervicace (oltre che ironico) pessimismo della ragione.
Non è questa la sede per una dissertazione sul tema del pessimismo e del suo esatto contrario. Ci basti sapere che il tema ha spesso attraversato la filosofia. Nel Settecento, è stato ad esempio al centro di una importante disputa fra due importanti filosofi del tempo. Uno, Leibnitz, tedesco, propugnatore delle dottrine ottimistiche postulava che l’uomo vivesse nel “migliore dei mondi possibili”. L’altro, Voltaire, francese, autore di un racconto filosofico Candido o l’ottimismo, che mirava invece a confutarne le tesi.
Tema che ritroviamo anche in Antonio Gramsci, che fa suo il motto apparentemente dicotomico secondo cui “la concezione socialista della rivoluzione è caratterizzata da due note fondamentali: il pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà”.
Estendendo poi lo sguardo alla veloce ed iperattiva cultura massmediatica contemporanea, la lingua inglese ha da poco forgiato l’espressione gergale “feel bullish“, riferita ad un modo di vivere positivo, caratterizzato da un atteggiamento di leggerezza, fiducia ed ottimismo. Mentre la metafora del bicchiere “mezzo pieno o mezzo vuoto“, a seconda di come lo si guarda, è diventata oramai, oltre che internazionale, esemplificativa di un certo atteggiamento nei confronti della vita e del mondo.
Non si può infine tralasciare di citare l’ abusato tormentone del comico: ogni mattina, che lo vogliamo o no, non importa se ci sentiamo leoni o gazzelle, l’importante è cominciare a correre. Metafora di saggezza popolare che compendia realismo, pragmatismo e un necessario atteggiamento di irriducibile ottimismo. Una sorta di aggiornamento al precedente tormentone di inizio anni Duemila quando il poeta Tonino Guerra, di fronte alla vetrina di un negozio di elettrodomestici, ci ricordava che “l’ottimismo è il profumo della vita”.
Sia come sia, l’eterna dicotomia ottimismo/pessimismo sembra ritornata più che mai in auge in questi ultimi tempi, durante i quali ciascuno di noi ha dovuto fare i conti con il costante spauracchio della pandemia che, solo da qualche settimana, ha ceduto spazio ai timori per le conseguenze globali di una guerra rovinosa che sembra minacciosamente bussare alle nostre porte.
Una cosa pare certa: la costante polarizzazione dei comportamenti dell’uomo sembra aver contribuito a scavare un solco ormai incolmabile fra i pessimisti “patentati”, cupamente maldisposti sulle “magnifiche sorti e progressive” e gli impenitenti ottimisti, i cui tratti facciali, scavati e accidentati dalle ansie quotidiane, rischiano però di somigliare sempre più ad una sinistra maschera clownesca. Quella di un Joker, per capirci: artefatta, posticcia e forzatamente in-soddisfatta.
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Chissà cosa ne avrebbero pensato Pirandello, Verga e Sciascia, tutti campioni “certificati” di un pessimismo strisciante, di questa ondata di necessario e forzato ottimismo, in un mondo che invece corre spedito verso cupi orizzonti. In effetti, l’immagine stereotipata (a ben ragione) che la critica ha cucito addosso a molti degli autori letterari siciliani, spesso marchiandoli a fuoco con lo stigma del pessimismo più cupo, sembra non lasciare scampo a letture di segno opposto. Anche quando le cose volgono al meglio. Per dirla con Bufalino, se c’è un posto dove l’ambiguità ha motivo di esistere, questa è proprio la Sicilia: “…una mischia di lutto e di luce. Dove è più nero il lutto, ivi è più flagrante la luce…”.
La visione pessimistica della vita traspare quasi in ogni pagina in campioni come Verga, Pirandello, Sciascia, ma anche in Borgese, Brancati e Vittorini, fino ad arrivare, praticamente ai giorni nostri, a Bufalino e Consolo. Il sentimento di isolamento, la lontananza dalle mappe della Storia, il dramma di sentirsi inappropriati o esclusi e autoesclusi dalle rotte del tempo, l’inseguimento di progetti impossibili da raggiungere, sono tutti temi presenti abbondantemente negli scritti degli autori di casa nostra. Sciascia racchiude questo elaborato sentimento di inappagata perifericità, assenza, solitudine e silenzio in una singola parola: “la sicilitudine”.
Ma c’è una scintilla, un innesco, un preciso punto di partenza a cui sembra essere ancorato questo malessere? Come ci racconta Giuseppe Lupo in un suo recente ed illuminante saggio, La storia senza redenzione (Rubbettino editore, 2021), a cui rimando per un approfondimento sul tema, nei siciliani questa visione negativa della vita è quasi sempre legata ad un pessimismo di fondo sul ruolo della Storia, quella con la S maiuscola.
La causa madre di questo sentimento di puntuto pessimismo può dunque avere un preciso riferimento storico: il Risorgimento italiano e la delusione all’indomani della campagna garibaldina in Sicilia. L’unificazione italiana, insomma, non solo non sarebbe riuscita a sedurre le passioni degli autori letterari siciliani, ma ha contribuito a scatenare in loro un obliquo e torvo sentimento di profonda sfiducia nei confronti della vita e dell’esistenza.
Un esempio? La novella Libertà di Verga è una dimostrazione perfetta di come la Storia possa rappresentare una trappola, un inganno per chi ha creduto di combattere per la libertà. E nelle parole finali del “carbonaio”, dopo il processo che lo condannava all’indomani dei disordini della ribellione delle “coppole” (i miserabili senza-terra) contro i “cappelli” (i ricchi signorotti), c’è tutta la filosofia del Verga: “ma come? In galera mi conducete? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Ma se avevano detto che c’era la liberta?”
In questo, Verga sembra essere un continuatore di quell’atavica sfiducia leopardiana nei confronti delle “magnifiche sorti e progressive”. E pare inaugurare un filone di scrittori ed intellettuali siciliani imbevuti all’osso di pessimismo storico. Tre romanzi storici di tre campioni siciliani che hanno affrontato l’Unità d’Italia da diverse angolazioni, corrono in questa precisa direzione: I Viceré (1894) di De Roberto, I vecchi e i giovani (1913) di Pirandello e Il Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa. In tutti e tre si assiste alla aperta delusione di intere generazioni e di intere classi nei confronti degli eventi patriottici.
Certo, da questo ad affermare che lo Stato Italiano si sia dimostrato nemico del Mezzogiorno, ne passa di acqua sotto i ponti. E infatti, non c’è da credere che il pessimismo di Verga, De Roberto o di Pirandello, sia improntato ad una difesa del precedente governo borbonico. Piuttosto sembrerebbe vero il contrario: quella miseria meridionale ereditata dal precedente governo borbonico, dal quale Verga, De Roberto e Pirandello hanno voluto prendere definitivamente le distanze, dopo lunghi decenni dall’Unità d’Italia, in realtà non era per nulla affatto cambiata. Motivo di rabbia e sconforto per i nostri scrittori che rimproveravano agli uomini e alla Storia di non aver saputo approfittare del momento giusto per coprire lo storico gap con il nord.
Critici come Benedetto Croce e Antonio Gramsci, poi, individuarono come massima responsabile di questo enorme ritardo del sud fosse la “gretta borghesia meridionale”. Secondo questa tesi, in preda al lassismo e all’indolenza, la classe borghese siciliana servì da base per un totale immobilismo della società, impedendo di fatto la costruzione di strade, l’istituzione di scuole e il solido impianto di un commercio fiorente e fruttuoso, tutte attività che potevano risvegliare nei contadini una volontà di migliorare e di non rassegnarsi. Non solo. Da questo atteggiamento lassista e rinunciatario parve insinuarsi il malcostume del parassitismo e, da lì alle varie declinazioni della mafia, il passo era ormai breve.
E nemmeno il muratore di Verga Mastro don Gesualdo che si era impegnato con grande ottimismo fino allo spasimo a scalare i gradini dell’alta società riuscì a redimersi dal vortice che sembrava risucchiarlo. E quando pensò di essere finalmente arrivato al traguardo di borghese arricchito, ecco che commise un errore imperdonabile: quello cioè di volersi imparentare con i rami secchi di un albero senza futuro, l’aristocrazia. Ossia con quella nobiltà in decadenza economica e politicamente asfittica, di cui Don Fabrizio Salina, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa, è l’esempio più autorevole.
Sulla scia del pessimismo più cupo, troviamo poi importanti testimonianze di Pirandello che punterà spesso il dito contro Girgenti (Agrigento): ne Il turno, L’esclusa, Il fu Mattia Pascal, Uno, nessuno e centomila. E in particolare ne I vecchi e i giovani, dove il paese appare “morto”, abbandonato a “una miseria senza riparo”, essenzialmente per colpa dei suoi abitanti che risultano troppo apatici e rassegnati per poter procedere ad un reale cambiamento dello status quo.
In definitiva, per rompere il cerchio di quella sicilitudine, il siciliano sarà chiamato ad uscire fuori dal guscio. Ossia: emigrare, per conoscere, approfondire e sperimentare altre culture. Un tratto che accomuna buona parte degli intellettuali siciliani fino ai giorni nostri. Con risultati, a dir vero, controversi. Ad alcuni, ad esempio, il guardare la realtà siciliana da lontano, provoca un capogiro. Come nel caso di Consolo. Per altri il rischio è quello di mettere dolorosamente sugli scudi i loro sentimenti più contrastanti e facendoli dubitare fortemente anche dell’amore nei confronti della propria terra. Come nel caso di Vittorini.
Probabilmente la chiave di tutto questo pessimismo diffuso e cristallizzato, come suggerisce Sciascia, è “l’insicurezza, componente primaria della Storia siciliana“. Una sorta di Idra di Lerna, un invincibile mostro a nove teste che porta con sé sentimenti di “paura, apprensione, diffidenza, passioni chiuse, incapacità di stabilire rapporti al di fuori degli affetti, violenza, pessimismo, fatalismo“.
Sia come sia, quando ancora oggi, ci abbandoniamo al più pigro ed insulso dei sentimenti, il fatalismo (come nel famoso detto “munnu ha statu e munnu è”), perché siamo stanchi di capire per quali ragioni questa terra non funzioni o funzioni male, perché la sentiamo abbandonata alle nequizie dei suoi interpreti politici peggiori; non è nel sole cocente (per dirla con Pirandello) “che ci addormenta pure le parole in bocca” e neppure “nel mare che ci isola” (per dirla con Sciascia”), né in una imperscrutabile entità suprema che dobbiamo cercare le risposte. Non solo per lo meno…
Più sicuro cercarle nel fitto reticolato della Storia, nel continuo fluire di quelle rappresentazioni pubbliche (e anche private) in cui sembrano essersi cristallizzati i comportamenti e le storture di tutti i protagonisti. È nel “malcostume” e nella “mala vita” vissuta dalla nostra gente, di ogni livello culturale e in ogni classe sociale, che va ricercata la Sicilia di ieri per spiegarci in filigrana quella di oggi.
Bisogna forse ripartire da lì, da dove aveva lasciato Nana‘, muniti preferibilmente del pessimismo dell’intelligenza e l’ottimismo della volontà.
Gianvito Pipitone
La corda Pazza “Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri
L’autore: Gianvito Pipitone da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.