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Buttanissima Sicilia

Qualche giorno fa mi sono imbattuto nello spot pubblicitario televisivo di una nota marca siciliana di liquori che, pur essendo da tempo ormai passata di mano, ci tiene a non perdere le proprie radici isolane. Al centro della campagna dell’amaro Averna c’è l’idea di rivelare al mondo intero le bellezze naturali della Sicilia e tutto quanto rientri nei canoni della sicilianità, presentando il liquore come il perno dei momenti conviviali. Dapprima si può ammirare una panoramica di Cefalù vista dal mare, poi la scalinata di Santa Maria del Monte a Caltagirone, dalla quale scende una ragazza che improvvisamente si strappa l’abito scuro per fare spazio ad uno sgargiante completo estivo. E poi, un susseguirsi di paesaggi siciliani, freschi, con vivaci e colorati mercati e pittoreschi centri storici, popolati da gente giovanile piena di energia vitale, sulle note di una musica dal beat hip hop, cantata in dialetto palermitano. Uno spot altrettanto gustoso ed efficace per veicolare “l’immagine” di una Sicilia così moderna e internazionale sarebbe davvero difficile da realizzare: chapeau!

Ma è davvero cambiata la Sicilia? Così come lascia intendere il cortometraggio? L’impressione è che non solo sia cambiata da un secolo a questa parte, ma che sia stata addirittura rivoluzionata: e in effetti l’isola sulfurea popolata dai poveri miserabili di Pirandello o quella dei pescatori di Trezza, vinti e rassegnati di Verga oppure quella ancora dei contadini affamati ma dignitosi di Capuana, sembra ormai distare anni luce da quella dello spot dell’amaro Averna.

Ma si può in questa sede sollevare un piccolo dubbio, insinuando che il cambiamento sia avvenuto maggiormente nella percezione che si ha dell’Isola piuttosto che nella sua intima sostanza? È concesso insomma? Manco a dirlo… è proprio quello che faremo.

Indubbiamente la Sicilia proietta un brand forte: in Italia l’isola duella ormai alla pari con Roma, Venezia, Firenze, Milano e Napoli. Il Brand Sicilia, costruito nel tempo attraverso stratificazioni varie, acquisite nel tempo dai riflessi provenienti da letteratura, cinema, giornalismo, arte, storia, altro non è che la risultante di diverse sfaccettature. E’ come un patchwork che si dipana su una parete dalle grandi superfici, capace di contenere fotogrammi di Pirandello, Sciascia, ma anche di Ciccio e Franco, di Mimì Metallurgico, di Saro Urzì, delle stragi di mafia di Capaci e via d’Amelio, delle sanguinose ammazzatine degli anni 80, del padrino Marlon Brando, dei padrini in carne e ossa, così come delle cattedrali arabo normanne o del sontuoso Barocco della Valle di Noto oppure dell’iconico Vulcano e dei suoi ospiti mitologici, della gloriosa epopea dei Florio e, perché no, di Federico II e della sue passioni aviarie.

Un patchwork in continua evoluzione aggiornato costantemente con nuove ed infinite sfumature: ai giorni d’oggi con l’innocenza perduta di Nuovo cinema Paradiso, con i personaggi di Camilleri carichi di quel rozzo buonsenso, con la bonaria ironia di Ficarra e Picone, oppure con il glamour di Dolce e Gabbana e l’ormai sdoganato mondo gay etc.

E la risultante di ciò? Difficile dirlo. I grandi autori letterari siciliani del Novecento ci hanno provato a decifrare l’isola, lasciandoci pagine scolpite nella memoria collettiva, usandola come metafora e paradigma per le umane debolezze. Bufalino, fra gli altri, diceva che le Sicilie sono tante e che non si finirà mai di contarle. Ma siamo sicuri che “le Sicilie” di oggi possano esser lette e decrittate ancora con il filtro di un Tomasi di Lampedusa o che i personaggi dipinti da Verga o da Brancati abbiano ancora da raccontarci come si sia nel frattempo evoluto l’homo siciliensis? Con il dovuto rispetto e la deferenza che si deve verso questi grandi autori risulta forse un pò fuori fuoco raccontare la Sicilia di oggi con le lenti di Fabrizio Salinas e della retorica del “tutto cambia per restare per com’è”. Così come sembrano essere invecchiate male le categorie di Sciascia di “uomini, ominicchi e quaquaraquà” che ben descrivevano la realtà sicula del secondo dopoguerra.

Sarebbe come continuare a guardare alla Sicilia con gli occhi di un mondo che non esiste più. Per dirla con una metafora di Gaetano Savatteri: “sarebbe come viaggiare attraverso l’isola con una guida turistica vecchia di 100 o anche 50 anni”, che ci parla di cose passate e magari perdute per sempre, ma che non ci dice del presente e di come la percezione del presente l’abbia cambiata.

Il cambio di immagine della Sicilia negli ultimi anni va dunque ben interpretato alla luce del presente. Se è innegabile che la Sicilia sia cambiata negli atteggiamenti, nelle piccole cose, nei gesti e negli automatismi di tutti i giorni, agganciandosi al fluire del progresso tecnologico e culturale di cui beneficia il mondo globalizzato, è però altresì vero che continui a presentare delle zavorre ancora troppo pesanti da sopportare.

Basta gettare uno sguardo appena al verso del secolo scorso per scorgere, ancora ben visibile, il retroterra recente di queste buie zavorre. Mi riferisco al periodo che va dalla strage di Viale Lazio nel dicembre del 1969 che segnava l’inizio di un ventennio di feroce guerra di mafia che avrebbe insanguinato le strade di Palermo, fino al 1992, annus horribilis delle grandi stragi di Capaci e via Amelio.

Non si può tornare indietro con la memoria a quei terribili anni, immortalati da film come “Pizza connection” (1985) o “100 giorni a Palermo” (1984) sull’ infamante assassinio del Generale Dalla Chiesa (1982), senza provare un brivido irrefrenabile dietro la schiena. Quando Palermo era la capitale della mafia e le cronache di ogni giorno erano piene di morti ammazzati che raccontavano il potere selvaggio della mafia mentre la paura su tutta l’isola si tagliava con il coltello.


Solo appena 30 anni fa quella era la Sicilia che veniva raccontata ai siciliani, agli italiani e al mondo intero. Senza fronzoli, con i cronisti che si affaccendavano giornalmente ad aggiornare il macabro record delle ammazzatine e ad istruire inchieste che spesso portavano i più temerari (un esempio su tutti, Peppino Impastato, assassinato nel maggio del 1978) a scontrarsi contro la Piovra, finendo per essere stritolati dai suoi tentacoli.

Un mondo implacabile, raccontato impietosamente dai servizi dei TG, che descrivevano Palermo alla stregua di Beirut. Un mondo di terrore, fatto di Giuliette smarmittate e volanti di Polizia che strombazzavano ad ogni immagine di repertorio; di sigarette smozzicate sulle labbra bruciacchiate dei giudici, fumate nervosamente una dopo l’altra, dietro al loro sguardo scarnificato, segnato dalla percezione imminente della morte.

Un mondo dove, nonostante tutto, si continuava a vivacchiare: a preparare la pasta con le sarde, le cassatedde e gli sfincioni sotto le feste, a festeggiare fuori porta il primo maggio o le pasquette, per natale e le feste comandate, nel tentativo di far passare per normalità quello che normale non era. Dove, nonostante la notevole arretratezza culturale rispetto al Nord, si cominciavano ad intravedere lentamente i primi frutti dell’evoluzione portata dalla rivoluzione del ’68: con i giovani che imparavano a fare l’amore sui sedili posteriori delle Fiat 127, e si allenavano a disobbedire al potere costituito, fumando i loro primi spinelli.

Le stragi del ‘92 segnarono una decisa reazione popolare. Quando sui balconi spuntarono lenzuola bianche e le strade si riempirono di cortei e fiaccolate di palermitani esausti per la situazione diventata insostenibile. Gli assassini di Giovanni Falcone e della scorta, prima, e di Paolo Borsellino, poche settimane dopo, rappresentarono dunque la tanto agognata svolta per l’opinione pubblica, dando il via ad un movimento spontaneo che segnò l’inizio di un cambiamento importante nella Storia della nostra isola e del nostro paese.

Un cambio di registro che obbligò lo Stato italiano a guardare finalmente a Palermo come ad un territorio perduto e da riconquistare. Necessariamente e con urgenza. La cattura a raffica di illustri latitanti, in primis di Riina nel 1993, Brusca nel 1996, Provenzano nel 2006, i pentimenti di importanti boss, i processi e i maxi processi, e l’adozione di importanti misure repressive (41 bis), chiusero un ciclo e sancirono la reazione finalmente decisa dello Stato, decretando decaduto il potere fino al quell’ora incontrastato della mafia sull’Isola.

A partire dal 2006 dunque, ecco che una nuova immagine dell’isola era pronta per essere sfruttata e divulgata. E cosa aveva in serbo la Sicilia una volta che la mafia, colpita al cuore e decimata nelle sue cabine di regia, aveva “abdicato” a favore di un consistente alleggerimento dei toni? Quali altri nuovi immaginari si sono nel frattempo sedimentati in questi ultimi anni nel suo brand?

Di certo è uscita fuori prepotentemente la Sicilia del cibo, in qualsiasi declinazione si presentasse e, di pari passo, quella del vino: un settore quello vitivinicolo che ha segnato un grande boom internazionale specie negli anni a cavallo del 2010. Poi è venuta fuori, quasi insospettabilmente anche una Sicilia gay friendly, grazie forse a due campioni come gli stilisti Dolce e Gabbana, seguiti a ruota dalla figura politica di Rosario Crocetta. E così via: la Sicilia dei piccoli borghi medievali, abbarbicati sulle Madonie o sui Nebrodi, la Sicilia delle spiagge incontaminate spesso appannaggio esclusivo di una nuova setta elitaria, quella dei convinti naturisti, fino alla Sicilia degli arcobaleni di matrice più internazionale, di recente coniazione. Il tutto, si sospetta, non diversamente che in passato, infarcito di stereotipi di cui la Sicilia è notoriamente “portatrice sana” (o insana?).

Ma c’è un ma. Ed eccoci arrivati al rovescio della medaglia. Prima di confermare che la Sicilia sia cambiata del tutto, non solo nell’immagine ma anche nella sostanza, l’impressione è che bisognerà smantellare i nuovi potentati politico-mafiosi che, ancora oggi, e forse in maniera più subdola che in passato, continuano a soffocare l’isola, lasciandola spesso agonizzante e priva di volontà.

Sicilia come fogna del potere” la definisce senza mezze parole il giornalista catanese Pietrangelo Buttafuoco, in uno dei suoi ultimi libri, raccontando fra le varie storture, l’irriducibile idiosincrasia della politica isolana, dove ad ogni nuova legislatura della Regione corrisponde un’infornata di “clienti” e dove lo scandalo degli stipendi dei dipendenti pubblici e delle incredibili promozioni autoproclamate farebbe gridare vendetta alle schiere di disoccupati disseminate in lungo e largo sull’isola. Senza dimenticare le varie monadi clientelari gestite direttamente dalla Regione: i forestali, oppure, ancora peggio, l’industria della formazione, un infernale marchingegno attraverso il quale “alcuni disoccupati trasformati in docenti formano altri disoccupati, destinati a diventare docenti di nuovi disoccupati”. Amaro ammetterlo: ma solo in Sicilia può succedere una cosa del genere.

Una Regione a “statuto speciale” quella siciliana che, con tutta evidenza, potrebbe amministrare uno dei patrimoni culturali più importanti e ricchi del mondo, permettendosi di sfamare i propri cittadini attraverso l’arte, il turismo e la cultura… e invece che fa? Semplicemente si perde dietro i mille rivoli del clientelismo più bieco, rimanendo al palo, con un’offerta culturale scandalosa: musei abbandonati all’apatia dei propri dipendenti, cantieri archeologici bloccati da anni e biblioteche, ormai deserte, costrette una dopo l’altra all’inevitabile chiusura. In un deserto dell’anima che sarebbe pure imbarazzante, se non fosse invece indegno.

Proviamo a domandare alla schiera di ragazzi, giovani e meno giovani ormai, da decenni costretti ad abbandonare l’isola perché non trovano uno spazio adatto per esprimere le loro professionalità. Medici, professionisti, insegnanti, imprenditori, musicisti, fisici, chimici, amici, parenti, fratelli. sorelle: chi di noi siciliani non conosce qualcuno che, schifato da questo sistema immondo del potere “occulto”, ha deciso e decide ancora oggi di farla finita con la propria terra?

E chi fra loro, durante le brevi rimpatriate nell’isola, almeno una volta a soggiorno, non abbia guardato il sole accecante dell’estate, quel mare d’autunno colore del vino, l’aria primaverile carica del profumo dolciastro di gelsomino e non abbia soppresso un amaro rigurgito, ricacciandosi in gola quel disperato grido di frustrazione: “buttanissima Sicilia!”

I maligni parlano della fiaba della… volpe e l’uva. Di coloro che non ce l’hanno fatta e che, frustrati dal fallimento, emigrano buttando fango contro il marciume regnante in Sicilia… Non è esattamente così. A ognuno di noi, in Sicilia, è capitato di ascoltare storie vere di professionisti e amici che hanno deciso romanticamente e testardamente di ritornare sull’isola. Con tutte le buone intenzioni. Ebbene: hanno rifatto le valigie nottetempo a velocità doppia di quella con cui le avevano originariamente preparate per abbandonare l’isola la prima volta. Ma stavolta con un biglietto di sola andata: senza tentennamenti o rimpianti.

I più saggi fra gli expats, per non farsi il sangue amaro, preferiscono invece non turbare il proprio equilibrio psico-fisico e non cedere né alle avances né alle illusioni, costringendosi forse a credere che la Sicilia sia proprio quella della pubblicità dell’amaro Averna. Nell’immagine così come nella sostanza.

Nell’ attesa mai sopita di un’eterna rivoluzione che tarda ad arrivare.

La corda Pazza
“Deve sapere che abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa. La seria, la civile, la pazza.” Così parlava Ciampa, lo scrivano del “Berretto a sonagli”. La corda civile per stare con gli altri, per accomodare la quotidiana finzione del saper vivere; quella seria per offrire le proprie ragioni, esaminarle, difenderle. Ma quando tutto questo non basta più, quando si strappa il pirandelliano “cielo di carta” allora non resta altro che sferrare la corda pazza: “Non ci vuole niente, sa, signora mia, non s’allarmi! Niente ci vuole a fare la pazza, creda a me! Gliel’insegno io come si fa. Basta che lei si metta a gridare in faccia a tutti la verità. Nessuno ci crede, e tutti la prendono per pazza…” G. Savatteri

L’autore: Gianvito Pipitone

Da 20 anni export manager nel mondo del vino, scrive per passione dai tempi dell’Università. Ha autoprodotto un romanzo (Montagne della Meta, 2009), una raccolta di racconti “del Novecento” (Pecore al buio, 2017) e da novembre 2020 cura un blog (www.BarryLyndon75.it) inseguendo i suoi molteplici interessi: geopolitica, storia, letteratura, musica etc. Vive con la sua famiglia (due bellissimi pupetti: Flavio e Matilde) alle pendici dell’Etna, sospeso fra il Cielo, il Mare e la “Muntagna”.

Gianvito Pipitone

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