Ci hanno tolto la Carrà, in un caldissimo pomeriggio di luglio. Se ne è andata in punta di piedi: lei che era abituata a palchi colorati, pieni di lustrini e paillette, in ogni parte dal mondo; lei che faceva Rumore con ogni sua canzone; lei che tra Tuca Tuca e sensuali danze dal sapore spagnolo non riusciva a tenere fermo quel suo iconico caschetto, ideato per lei da Vergottini. Ed è andata via in silenzio, in un’anonima clinica romana, chiedendo solo una bara di legno grezzo ed un’urna per le ceneri.
Il talento di Raffaella andava oltre quelle che erano le sue capacità artistiche: il canto, il ballo, la conduzione televisiva. Per questo in tutti i giornali e le trasmissioni televisive si parla di lei come un’icona, parola certamente abusata, forse anche un po’ fastidiosa, ma che forse rende chiaro a tutti che la Carrà non era né una semplice presentatrice, né una semplice ballerina, né una semplice cantante. Per il regista spagnolo Pedro Almodovar addirittura “la Carrà non è una donna, ma uno stile di vita”.
Il suo regno era il pop. Pop come popolare per la sua enorme capacità di arrivare alla gente. Non a caso il critico musicale Gino Castaldo sottolinea la portata della canzone pop: “Da chiunque venga immaginata, una canzone prende vita solo quando dalla bocca del cantante discende in mezzo alla gente, quando viene amata, usata, sgualcita, imbrattata di realtà, reinventata nei rigagnoli delle mille occasioni quotidiane e dalla potenza del sentimento collettivo”. Ed è questa la potenza di Raffa: essere (stata) nel sentimento collettivo di tutti, e non solo degli italiani.
Ma non basta. Anche grandi giganti dello spettacolo del passato, come Corrado, lo sono stati, ma la Carrà ha avuto un altro talento, meravigliosamente approfondito in un libro di Diego da Silva, dal titolo Sono contrario alle emozioni in cui lo scrittore napoletano sottolinea la sua capacità “di tornare alla tradizione entrando e uscendo liberamente dall’avanguardia, quest’attitudine a vivere una doppia vita facendo in modo che nessuna delle due fagociti l’altra”. Sempre avanti, eppure sempre capace di dialogare con la gente.
Così, per esempio, mentre altre artiste, particolarmente osannate dal pubblico, cantano in canzoni d’autore considerate addirittura simbolo di femminismo: “E se ci trasformiamo un po’ è per la voglia di piacere a chi c’è già o potrà arrivare a stare con noi” (Fiorella Mannoia, 1987), Raffaella nel suo programma di mezzogiorno, mentre – parole sue – “le mamme girano il sugo”, non esita a gridare tra una coreografia e l’altra: “E ritornare al tempo che c’eri tu / Per abbracciarti e non pensarci più su / Ma ritornare ritornare perché / Quando ho deciso che facevo da me” (Rumore, 1974). O ancora: “Com’è bello far l’amore da Trieste in giù / L’importante è farlo sempre con chi hai voglia tu / E se ti lascia lo sai che si fa? / Trovi un altro più bello che problemi non ha” (Tanti Auguri, 1978).
Canzonette? Forse, ma in poche semplici parole abbiamo concetti come l’autodeterminazione della donna, la ‘sostituibilità’ del maschio, il diritto all’amore libero “con chi hai voglia tu”. Rivoluzionaria, se ci pensiamo, già agli inizi degli anni ’70. Con lei e dopo di lei, pochissime artiste – e cito solo Donatella Rettore, Patty Pravo ed Amanda Lear – hanno veramente contribuito con le loro canzoni e performance a scardinare questo mondo fatto di fiori (le rose!) e di attese (le macchine dei playboy!). Poi, il nulla.
Già, le performance. Lorenzo Coveri, accademico della Crusca, non a caso, asserisce: «la canzone ha a che fare, più che con un atto di comunicazione orale, con un atto di comunicazione teatrale». La canzone, dunque, non è solo un atto linguistico, musicale o vocale ma anche gestuale. In una delle sue interviste, infatti, Raffaella diceva con la sua straordinaria autoironia e semplicità: “Le mie canzoni non si devono solo ascoltare, si vedono vedere: non essendo io Celine Dion, sì, si devono vedere”.
E noi staremo lì, a vederle, nella piena convinzione che nessuno potrà prendere il suo posto. Grazie, Raffaella!
Gaspare Trapani*
*docente di Lingua e Letteratura italiana a Lisbona e studioso di culture pop