Infermieri “anonimi” in prima linea:«Se non hai testa, stomaco e cuore non puoi fare questo mestiere»

Tiziana Sferruggia

Infermieri “anonimi” in prima linea:«Se non hai testa, stomaco e cuore non puoi fare questo mestiere»

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sabato 04 Aprile 2020 - 08:00

Continua il nostro viaggio nel campo di battaglia contro il coronavirus per conoscere più da vicino i “dodici eroi” della Task Force sanitaria coordinata dal dottor Mario Minore (leggi qui) dell’ASP Trapani che da più di un mese girano per tutta la provincia ed eseguono i tamponi a domicilio. Con stoica dignità ci hanno chiesto di restare anonimi e che le loro testimonianze non fossero usate per speculare sul dolore e sulla fragilità dei pazienti. Non tradiremo la fiducia di chi, con razionalità, ammirevole resistenza e soprattutto con temeraria passione, dedica la propria vita e le proprie forze ai malati bisognosi di cure.

La cosa che mi ha colpito di più, fino ad adesso, è entrare nell’ambiente familiare, nelle case delle persone, nella loro vita intima e trovarvi all’interno solo le loro ansie, la paura e la preoccupazione. Sono rimasto sconvolto nel vedere che all’interno di queste famiglie si sono create delle divisioni per tutelarsi a vicenda. Si tratta di procedure di isolamento improvvisate ma al tempo stesso efficaci a mio parere. L’immagine che sarà difficile da dimenticare è stato fare il tampone ad una giovane donna che si era auto isolata, lontana dal marito e dai suoi figli che vivevano in un’altra abitazione. Era consapevole di essere venuta a contatto con dei soggetti positivi. Vederla piangere durante la procedura è stato per me disarmante”.

Un comprensibile umano pudore, un senso di disagio per quella profanazione di intimità spesso concessa a malincuore. E poi ci sono le parole non espresse ma che sono scritte sugli occhi perché, come un’altra infermiera ha aggiunto, “in questa trincea c’è la paura di ammalarmi e di stare lontana dai miei cari. Eppure, si portano sempre parole di conforto e si infonde incoraggiamento ai pazienti. C’è stanchezza ma non demordiamo. La nostra non è una semplice professione ma una missione”.

Stralci “umanissimi” di vita quotidiana, commozione e fragilità. Questo abbiamo colto nel nostro emozionale viaggio nella conoscenza di “esseri umani” alle prese con pazienti forse affetti da coronavirus. Essere considerati come la risposta a tutte le difficili domande, non è facile.

Ho trovato un gruppo di persone fantastiche e ben organizzate. Qui, dove il mestiere si esercita con la paura del contagio, c’è molta umiltà, tutti sanno trasformare le paure in un sorriso. Se non hai cuore, stomaco e testa non puoi fare questo mestiere. Penso sempre al giuramento che ho fatto quando ho indossato questa “divisa” e per quante paure tu possa avere, devi far capire agli altri che ci sei, che siamo là, con la speranza che tutto vada bene. Noi in questo momento siamo un supporto psicologico per i pazienti che stanno vivendo questa realtà. Forse sono una testimonianza troppo positiva in questa guerra. Presentarsi a casa delle persone non è facile ma l’approccio è importante e cerchiamo di guadagnare la fiducia del paziente. Andiamo in 2 e ci vestiamo con l’equipaggiamento adatto quando stiamo per entrare, prima di essere a contatto diretto con la persona sulla quale eseguiremo il tampone. Cerchiamo di essere semplici nello spiegare cosa avverrà e di infondere tranquillità. E’ un esame che dura pochissimo ma è un po’ fastidioso. Eseguiamo 2 tamponi, uno nel naso ed un altro nella faringe. Uno di noi esegue i tamponi e l’altro si occupa della parte burocratica. Quando andiamo via la gente ci ringrazia per la nostra professionalità. E questo ci ripaga. Poi portiamo i contenitori con i tamponi nei laboratori di riferimento. Anche l’approccio con i bambini non è quasi mai traumatico. Cerchiamo di scherzare e presentare il tutto come un gioco. Le persone ci chiedono quando finirà l’emergenza. Vedo negli occhi la paura la fragilità la solitudine per dover stare lontani dalla famiglia e sperano che il risultato del tampone sia negativo per tornare vicini. Raccogliamo le loro emozioni, gli sfoghi e cercano in noi delle risposte. Ci sono persone che ci vedono come la risposta a tutte le loro domande. E c’è chi piange e non è facile assisterli.

Molto toccante è la testimonianza di un altro giovane infermiere che presta anche servizio al pre triage. Ha descritto in modo semplice e mirabile l’impatto con i bambini sottoposti al tampone e la reazione di un disabile. Una sorta di “Magnificat” di riconoscenza che a tratti ricorda lo stupore di “Ciaula scopre la Luna” nell’indimenticabile racconto di Luigi Pirandello.

“Ho fatto tamponi a ragazzi tornati dal nord ma solitamente li faccio a persone di mezza età. Ho fatto qualche tampone a dei bambini. La cosa che mi ha colpito è che erano più coraggiosi dei genitori. I bambini si sono seduti e non hanno mosso un dito mentre il genitore esprimeva tutta l’emozione che aveva dentro, la paura per l’incertezza. La stessa cosa è successa ad un ragazzo disabile di 20 anni, a letto. Lui sorrideva. Per tutto il tempo era contento perché vedeva delle facce nuove.

E poi c’è chi dedica il suo “giorno libero” al servizio e contribuire a stanare quel maledetto virus e batterlo per sempre:

Lavoro a Trapani e nel mio giorno libero raggiungo Alcamo che è il punto di partenza per andare a fare i tamponi domiciliari. Da quando abbiamo cominciato, abbiamo incontrato diversa gente, di ogni estrazione sociale. Il primo gruppo di persone a cui ho fatto il tampone erano miei colleghi. Poi ho incontrato operai, impiegati, insegnanti, bambini, medici di famiglia, uomini di legge. Una cosa li accomuna. La paura si legge nei loro occhi, specialmente se hanno avuto contatti con pazienti Covid o se sono febbricitanti. Hanno paura e nello stesso tempo sono grati. Ci ringraziano una, due, tre volte e vorrebbero farlo ancora. Allo stesso tempo vivono l’ansia del risultato ma non siamo noi a dare i responsi. A volte, mi rendo conto che siamo fin troppo sbrigativi. Ma lo siamo per ottimizzare i tempi. Però mi sento un po’ in colpa perché ho spesso la sensazione che la gente, più che cercare le risposte, voglia avere tempo per raccontare in quale modo subdolo ha incontrato il virus senza riconoscerlo subito. Starei volentieri a raccontare ogni storia ma siamo sempre di corsa e non sempre si può. Noi sanitari non siamo né angeli né soldati. Siamo solo esseri umani con i nostri timori e i nostri limiti. Ci sono quelli che dicono “si è sempre fatto così” e ci sono quelli che studiano, che vogliono capire il perché delle cose. Ci sono gli incoscienti e gli inconsapevoli. C’è l’intraprendenza e c’è la vigliaccheria. Siamo esseri umani, non eroi, nemmeno martiri. E abbiamo paura, come tutti. Quando si comincia a fare questo lavoro (non è una missione!) non si può più ignorare quell’antico richiamo che spinge ogni uomo e ogni donna a tendere la mano alla persona inginocchiata a terra. Queste ultime parole le ho prese in prestito ma sono certa che la persona che le ha scritte non me ne vorrà”

Ci vuol coraggio a fare quello che fanno, ma questa parola nessuno di loro l’ha mai usata durante il loro racconto come se fosse normale averlo anche in una circostanza estrema come questa. Una delle cose più difficili da fare, per chi scrive, è commentare le emozioni altrui. Un senso di ineffabile sgomento prende allo stomaco, perché, ci si accorge che ogni parola spiegata, è superflua se non fastidiosa.

Un ringraziamento va anche a quegli infermieri che non sono riusciti ad esprimere con parole ciò che sentono e che lavorano con eguale impegno e dedizione.

Tiziana Sferruggia

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