Ci ritroviamo spesso – conoscenti, coetanei, compagni delle Medie – in fila ai controlli: le facce stralunate da sveglie antelucane imposte dal low cost, ma senza le fotocamere a tracolla di quando (prima della crisi) andavamo in vacanza anche fuori stagione. Ogni volta che – gonfiando i trolleys di vivande e maglioni – partiamo per raggiungere i figli neo/emigrati, si capisce dai nostri sguardi che non è un più viaggio, ma si dimostra un bisogno. Serve anche a riannodare fili di dolcezza che mesi e chilometri di distanza congiurano a sfilacciare e illanguidire. Fino agli anni del loro Liceo, la vita appare una naturale evoluzione: crescono in centimetri e in traguardi; il maschio geometrizza le rasature, la femmina acconcia il maquillàge; a tavola si scodellano pietanze e racconti. Ecco che arriva la “maturità”. E, dopo quell’estate, il distacco. Trascorrono, poi, stagioni di tremori per le turbolenze aeree e di rossori per i debutti agli esami. Nebbie padane e mobìlio Ikea subentrano al pane di casa e ai tramonti davanti alle saline. Le festività segnano ritorni chiassosi che hanno il sudore e lo stropiccìo di lenzuola abituate a lunghe stagioni di asciutto inodore e liscio indeformabile. La conquista del “pezzo di carta” serve a muovere orgogliose parentele che affollano alberghi desueti e corridoi di antica austerità. Si schiudono, infine, speranze alimentate da curriculum e colloqui. Rimane da scoprire se il lavoro, ove raggiunto, allarga gli orizzonti o amplifica le malinconie.
Diego Maggio