Rispetto al Natale, su cui esiste naturalmente una letteratura pressoché inesauribile, le ricorrenze dell’ultimo dell’anno e del capodanno – con i suoi piccoli e grandi riti, le aspettative e le atmosfere variopinte, così come i toni malinconici – rappresentano una fonte di ispirazione più ‘laica’ e forse meno conosciuta, ma non meno ricca di esempi sorprendenti, tra gli autori nostrani. L’excursus potrebbe essere, ovviamente, molto lungo e composito.
Limitandoci soltanto ai testi esemplari di alcuni poeti del Novecento, il Montale di Satura è tra l’altro l’autore di uno dei testi più dissacranti sul passaggio d’anno, Fine del ’68, in cui il poeta – come un imperfetto e più cinico Astolfo – contempla “dalla luna, o quasi / il modesto pianeta”, ostentando tutta la sua apparente estraneità nei confronti di un mondo che si accinge a celebrare festosamente l’anno nuovo, forse per distrarsi dall’idea della morte che si fa esplicita negli ultimi versi: “Tra poche ore sarà notte e l’anno / finirà tra esplosioni di spumanti / e di petardi. Forse di bombe o peggio, / ma non qui dove sto. Se uno muore / non importa a nessuno purché sia / sconosciuto e lontano”. I versi del poeta ligure sono di sconcertante attualità, se si pensa alle guerre e ai conflitti in corso nel mondo.
Qualche capodanno dopo, Patrizia Cavalli – in uno dei suoi acuminati epigrammi – sembrerebbe echeggiare proprio i versi montaliani, con un’esplicita dichiarazione di saggia e conquistata indifferenza di fronte all’anno che passa: “Non benedico certo l’anno nuovo / non voglio benedire proprio niente; / nuovo o vecchio che sia non mi commuovo / ma, cosa nuova, mi sono indifferente”.
Di diversa impronta è il bellissimo sonetto con cui Franco Fortini apre la sezione Versi per la fine dell’anno, contenuta nella raccolta Paesaggio con serpente. L’anno che finisce è il 1975 e i versi, dedicati al collega Zanzotto, tracciano un bilancio doloroso perché evocano la recente morte violenta di Pasolini: “Come nel buio si ritrae lento, / Andrea, questo anno già da sé diviso. / Ora nel vischio del suo fiele intriso / starà così per sempre spento”. Gli ultimi versi, in modo sarcastico, alludono pessimisticamente all’Apocalisse e a una inesistente Gerusalemme.
La poesia di Vivian Lamarque, con la sua inconfondibile cadenza infantile, in una delle sue filastrocche ci riporta invece alla dimensione elementare e propiziatoria dell’anno che comincia: “’Buon anno!’, dice il mare / al suo pesciolino. / ‘Buon anno!’, dice il cielo / al suo uccellino / (…) / e anche il panino al suo formaggino”. Mentre il conterraneo Luciano Erba, in Capodanno a Milano, depreca la mancanza degli “uomini augurali” di un tempo, affidandosi a una vecchia credenza popolare meneghina: “Si credeva a Milano che a vedere / per primo un uomo sulla soglia di casa /andando a messa il primo di gennaio / fosse segno di prospero futuro”.
Ma è un poeta del Sud come Leonardo Sinisgalli quello che ha forse meglio celebrato, nei soli tre versi frugali di Fine d’anno, il rito domestico e solitario della notte di San Silvestro: “Metti sulla graticola / una formica e una pica. / Fai un pranzo all’antica”.