Curioso davvero che Roberto Calasso se ne sia andato proprio il giorno in cui esce, tra l’altro, il libro che aveva dedicato al suo omonimo ineffabile maestro: il leggendario e fantasmatico Roberto Bazlen, meglio noto – anzi ignoto – come Bobi: il fondatore (assieme a Luciano Foà) della casa editrice Adelphi. E chissà se a Bobi Bazlen sarebbe piaciuta questa coincidenza, questa uscita di scena così spudoratamente testamentaria.
Adelphi è un marchio di qualità per tutti i frequentatori feriali di librerie e biblioteche. Non c’è infatti lettore medio italiano o bibliofilo appassionato che nella sua memoria di pagine lette o soltanto compulsate non debba qualcosa a un libro del catalogo Adelphi: una scoperta, una riscoperta, una buona traduzione, l’atteso recupero di un’opera irreperibile o di un autore dimenticato. Tra i miei libri di culto – alcuni dei quali diventati nel tempo inestimabili pezzi da museo – custodisco gelosamente una prima vissutissima edizione di Seminario sulla gioventù, il romanzo d’esordio di Aldo Busi, una vecchia copia di Lolita (uno dei libri che credo di aver più regalato agli amici nelle occasioni più disparate), il Diario di Guido Morselli, accanto a un capolavoro fortunatamente dissepolto come Dissipatio H.G. Ma pure tanti ritrovati e continuamente consultati Manganelli, almeno un paio di ristampati Landolfi, oltre che qualche voluminoso Arbasino, qualche attempato Sgalambro. Tutti esemplari puntellati e sottolineati in modo maniacale tra una lettura, una rilettura e l’altra. D’altronde, è lo stesso Calasso – in Come ordinare una biblioteca, dopo aver suggerito al lettore che “il miglior ordine, per i libri, non può che essere plurale, almeno altrettanto quanto la persona che li usa” – a indicare che ogni lettura (anche quella apparentemente più algida o frettolosa) lascia un’impronta personale pressoché indelebile: “Ho sempre diffidato di quelli che vogliono conservare i libri intatti, senza alcun segno d’uso. Sono cattivi lettori. Ogni lettura lascia tracce, anche se nessun segno rimane sulla pagina. Un occhio esercitato sa subito distinguere se una copia è stata letta o non letta”.
Autore di libri eruditi e inattuali, intellettuale enciclopedico, raffinato e elegante, Roberto Calasso era l’ultimissimo dei grandi editori italiani, ancora gloriosi e resistenti. Grazie alla sua avventura editoriale fino alla fine indifferente alle lusinghe del discount culturale, da posizioni non sempre egemoni o allineate, in Italia sono stati coraggiosamente (ri)pubblicati autori e “libri unici” (la definizione anche stavolta è di Bazlen) che in un tempo come il nostro, fagocitato dalle leggi inesorabili del mercato, stenterebbero forse a trovare una giusta collocazione persino in ciò che rimane dell’editoria cosiddetta di nicchia. Con la scomparsa di Calasso viene sigillata forse per sempre una nozione di “editoria come genere letterario”, tanto artigianale quanto ‘sacrale’, conservatrice e sperimentale al contempo, con tutta la sua idea e il suo armamentario di letteratura e di libro destinato a durare, che era già a sua volta progressivamente scomparsa da un pezzo dagli scaffali delle librerie mainstream. Un’epoca, quella di cui Calasso è stato uno degli ultimi protagonisti, che sembra essere ormai definitivamente consegnata alla Storia e che nella mia memoria personale trova ora il suo requiem più nostalgico, ancora una volta, nelle note di una canzone del Battiato degli anni ’80. Che in una strofa di Passaggi a livello cita in modo irriverente proprio l’amico Calasso (“Giocavano sull’aia bambini e genitori / Calasso li avvertiva dal Corriere della Sera: / ‘Copritevi che fa freddo, mettetevi le galosce!’”), quasi un inchino pop e insieme uno sfottò a quella che in quegli anni si sarebbe definita – per puro contrasto definitorio – cultura ‘alta’.
Adesso si può soltanto sperare che – archiviata la retorica inevitabile delle celebrazioni e attraversata l’elaborazione dell’ennesimo lutto – la preziosa eredità dell’immenso patrimonio di Adelphi, a cui tutti dobbiamo una reverente gratitudine, sia raccolta con la stessa accuratezza e lungimiranza da mani altrettanto sapienti e illuminate come quelle di Roberto Calasso.
Francesco Vinci