Riflessioni su un anno indimenticabile e su quello che verrà

Vincenzo Figlioli

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Riflessioni su un anno indimenticabile e su quello che verrà

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giovedì 31 Dicembre 2020 - 07:00

“Che sia un anno indimenticabile”. Lo abbiamo augurato a noi stessi e agli altri in molti dei nostri brindisi di Capodanno. Un auspicio innocente, che abbiamo rinnovato 365 giorni fa, non immaginando che saremmo stati presi alla lettera. E’ stato davvero indimenticabile, questo 2020. C’è un numero, più di tutti, che lo iscrive di diritto nei libri di storia: 700 mila. E’ la stima sul numero dei morti in Italia negli ultimi 12 mesi, annunciato nei giorni scorsi dal presidente dell’Istat Giancarlo Blangiardo, che ha anche sottolineato come un dato simile non si registrava nel nostro Paese dal 1944. Il Coronavirus è stata la nostra guerra, si è accanito con i soggetti più fragili (anziani e persone gravate da altre patologie) e ha ridisegnato il nostro rapporto con la vita.

Rispetto a marzo, abbiamo la consapevolezza che non ne stiamo uscendo migliori (come gli ottimisti proclamavano) in quanto la pandemia ha aumentato le diseguaglianze e ha incattivito gli animi. Non è facile riappropriarsi velocemente di un senso di comunità preso a picconate nel tempo e che sarebbe stato quanto mai utile in questi mesi. Perchè al di là di qualche meritoria iniziativa a macchia di leopardo, portata avanti dalle realtà socialmente più sensibili, facciamo ancora tremendamente fatica a scrollarci di dosso l’immaginario edonistico degli anni ’80 che ha accompagnato la crescita e la maturazione di gran parte dell’odierna classe dirigente (e di conseguenza le sue scelte), la tendenza all’individualismo, a identificare l’idea di successo con determinati clichè, tramontati da tempo. Il tentativo del popolo di Seattle, a fine anni ’90, sfociato poi nel movimento no global, è stato spazzato via dalla mattanza di Genova nel 2001 e dall’attentato alle Torri Gemelle di qualche settimana dopo, quando i grandi della Terra approfittarono dell’emozione popolare per un’immane tragedia per delegittimare qualsiasi iniziativa volta a ridiscutere il sistema. C’è stato un periodo, nemmeno troppo breve, in cui qualsiasi corteo di piazza veniva presentato come una potenziale accolita di terroristi. Di fronte alle manganellate “didattiche” dei governi la risposta popolare è stata l’isolamento domestico, apparentemente ammorbidito dall’esplosione della socialità virtuale, in cui si poteva comodamente dire pesta e corna di governi e multinazionali senza finire al Pronto Soccorso, finchè anche questa presunta libertà ha cominciato a mostrare il rovescio della sua medaglia, con il proliferare di disinformazione e fake news. Negli ultimi tempi, qualche speranza avevano cominciato a suscitarla le nuove generazioni, che grazie a figure come Papa Francesco o Greta Thunberg hanno cominciato a formarsi con riferimenti culturalmente diversi, ma sarà il tempo a dire se il nostro pianeta, dopo la vaccinazione di massa e l’auspicabile sconfitta del Covid, si ritufferà nei rituali del recente passato o comincerà finalmente a ragionare sul futuro.

La storia ci insegna che, dopo ogni guerra, c’è un trattato di pace che indica una nuova direzione per i decenni a venire. E’ esattamente quello che servirà da qui a qualche mese, ma sarà necessario ridiscutere tante cose: non basterà più parlare di ristori alle categorie che più hanno sofferto il lockdown, ma occorrerà pensare a un’economia diversa, che non dipenda soltanto dai consumi. Perchè anche se nell’isolamento delle nostre case abbiamo capito tante cose in questi mesi, a partire dal rapporto con i nostri affetti, spesso trascurati nella folle corsa verso quegli standard di successo prima citati, ci sono aspetti che dipendono da chi continua a detenere le leve del potere, a livello politico ed economico. Se i nostri nonni seppero ricostruire l’Italia devastata dalla guerra e dalla dittatura avendo ben chiara la necessità di impegnarsi per un Paese fortemente radicato nei principi democratici sanciti dalla nuova Costituzione, alla generazione 2020 toccherà indicare una direzione non più negoziabile, che cancelli le vecchie logiche individualiste per proporre un nuovo senso di comunità, fatto di servizi pubblici funzionanti (sanità e istruzione su tutti), di giustizia sociale, di investimenti sulle nuove generazioni, sull’ambiente, sulla cultura. Sarà un processo lungo e complesso, ma piace pensare che si possa contare su una base motivazionale più forte rispetto al recente passato. Non basterà, domani, cambiare calendario per ottenere, come per magia, tutto quello che avremmo desiderato in questi mesi. Ma, quantomeno, potrà essere d’aiuto pensare davvero a un nuovo inizio. Nulla che già, in maniera mirabile, non sia stato detto da uno dei più brillanti protagonisti del secolo scorso, Albert Einstein:

Non pretendiamo che le cose cambino se continuiamo a farle nello stesso modo. La crisi può essere una vera benedizione per ogni persona e per ogni nazione, perché è proprio la crisi a portare progresso. La creatività nasce dall’angoscia, come il giorno nasce dalla notte oscura. È nella crisi che nasce l’inventiva, le scoperte e le grandi strategie. Chi supera la crisi supera sé stesso senza essere superato. Chi attribuisce le proprie sconfitte e i propri errori alla crisi, violenta il proprio talento e mostra maggior interesse per i problemi piuttosto che per le soluzioni. La vera crisi è l’incompetenza. Il più grande difetto delle persone e delle nazioni è la pigrizia nel trovare soluzioni. Senza crisi non ci sono sfide, senza sfide la vita è routine, una lenta agonia. Senza crisi non ci sono meriti. È nella crisi che il meglio di ognuno di noi affiora; senza crisi qualsiasi vento diventa una brezza leggera. Parlare di crisi significa promuoverla; non parlarne significa esaltare il conformismo. Cerchiamo di lavorare sodo, invece. Smettiamola, una volta per tutte, l’unica crisi minacciosa è la tragedia di non voler lottare per superarla”.

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