“Si resti arrinesci” è lo slogan della campagna lanciata dal movimento delle “valigie di cartone”, che ieri ha radunato a Palermo migliaia di giovani provenienti da tutta la Sicilia per manifestare contro lo spopolamento del Sud. Un tema che anche da queste colonne abbiamo spesso affrontato e che, per quanto mi riguarda, ritengo dovrebbe essere il primo punto della agenda politica della classe dirigente siciliana. E’ impossibile immaginare un futuro per questa terra se non si interviene contro l’emorragia demografica che sta impoverendo il Meridione delle sue energie migliori. Basta fare un giro per le scuole delle nostre città per rendersi conto che vorrebbero rimanere qui solo quelli che hanno tutto e quelli che non hanno niente. Fronti opposti che, peraltro, nella migliore delle ipotesi nemmeno si parlano. Frequentano istituti, locali e persino social diversi, riducendo al minimo le occasioni di confronto. E se proprio capita di incrociarsi, si guardano con reciproca diffidenza. In mezzo ci sono tutti quelli che partono, talvolta con l’idea di tornare solo per le feste comandate, talvolta con l’idea di tornare. Un po’ come quei siciliani – “di scoglio” e “di mare aperto” – che metteva a confronto Andrea Camilleri nel libro-conversazione con Marcello Sorgi, “La testa ci fa dire”.
Chiaramente, non è intenzione di chi scrive criticare chi, legittimamente, vuole realizzare altrove i propri progetti di vita. Tutt’al più si potrebbe discutere su una condizione essenziale, la libertà di scelta. Quanto è davvero libero di scegliere se tornare o meno nella sua città un giovane siciliano che si è formato all’estero o al Nord e vorrebbe mettere le proprie competenze al servizio della comunità di appartenenza? E chi è tornato, può raccontare di aver trovato le condizioni favorevoli per far fruttare la formazione acquisita? Proprio per questo, la protesta di ieri a Palermo ha come obiettivo non l’emigrazione in sé, ma quella “forzata”. Per farci un’idea di cosa stiamo parlando, potremmo provare a chiedere ai rappresentanti delle associazioni del territorio quant’è semplice organizzare un’iniziativa, misurarsi con gli uffici pubblici, dribblare condizioni capestro, boicottaggi, concorrenze sleali… Eppure, in campagna elettorale sono sempre tutti pronti a dire che “i giovani sono il futuro della nostra terra”, riempiono i comitati dei loro volti speranzosi, del loro entusiasmo, dei loro progetti, salvo poi liquidarli appena si comincia a fare sul serio, alimentando disincanto e rassegnazione. Nel frattempo, non si sono accorti che le città che governano hanno assunto identità diverse e connotati anagraficamente irregolari, in uno scenario che a tutti i livelli racconta un innalzamento della tensione tra élites e popolo (sperando che non finisca come nelle scene finali di Joker).
Si estinguono paesi, si chiudono asili, scuole e presidi sanitari, aumentano i disoccupati e i “neet” (coloro che non studiano e non lavorano). Ben vengano progetti che sostengono le start up locali, come “Resto al Sud”, ma anche il Ministro Provenzano ha condivisibilmente affermato che non bastano i decreti a risolvere un problema così complesso e articolato. Serve creare condizioni di vita realmente favorevoli ai giovani, magari cominciando col chiedere loro cosa potrebbe convincerli a restare o a tornare nella loro terra: potrebbero arrivare risposte quanto mai utili per invertire la tendenza e cominciare davvero a costruire la Sicilia che tutti vorremmo.