I difensori ribattono: “è innocente. La stessa persona offesa, pur conoscendolo, ha sporto denuncia contro ignoti, visto la chi ha chiamato aveva un forte accento palermitano”
Il pubblico ministero Calò ha chiesto una condanna a tre mesi di reclusione per don Vito Caradonna, accusato di minacce e molestie telefoniche. Il processo si sta celebrando innanzi al giudice monocratico Matteo Torre e scaturisce dalla denuncia di Antonino La Rosa, di 40 anni, persona offesa, assistita dall’avvocato Edoardo Alagna, che quattro anni fa ricevette per quattro giorni alcuni messaggi anonimi a tema minaccioso: “Ti uccido. Non hai capito niente sei tu quello che devo distruggere. Saluta per sempre le persone che ami perché non le rivedrai mai più”. Prima ancora era gli era arrivata una telefonata anonima altrettanto minacciosa. “La parte offesa – ha detto l’avvocato Stefano Pellegrino che, insieme a Luigi Pipitone difende don Vito – ha escluso che le minacce telefoniche anonime ricevute possano essere riconducibili a Vito Caradonna perché il timbro di voce era completamente diverso anche per via dell’accento palermitano”. Tuttavia la scheda telefonica usata per chiamata ed sms risulta intestata a don Vito, ma i legali hanno sottolineato che non c’è prova che sia stato lui ad usarla. La sentenza è attesa per il 6 luglio. Don Vito è stato condannato in primo e secondo grado a due anni, con pena sospesa, per tentata violenza sessuale, ma anche per questa vicenda i legali hanno affermato l’innocenza del sacerdote e annunciato il ricorso in Cassazione. Caradonna è stato sospeso “a divinis” circa due anni fa dal vescovo Domenico Mogavero. Questo provvedimento dell’ordinamento canonico comporta l’esclusione di ogni atto legato all’ordine sacerdotale e, quindi, l’impossibilità di celebrare sacramenti e di impartire benedizioni. Non comporta, invece, la privazione dell’abito ecclesiastico e non esonera dagli obblighi connessi con lo stato di vita di ministro ordinato.